Queen al “Live Aid”: i 21 minuti che ne fecero leggenda
Quando si trattava di preparare i live, i Queen erano una macchina da guerra. E così fu anche quella volta

È roba politica, stiamone lontani. Ma che senso ha un concerto benefico in piena estate? Ho cattive sensazioni, meglio evitare. Non mi va, non contate su di me. Se i membri dei Queen avessero seguito ciascuno il proprio istinto iniziale, la storia del rock non avrebbe vissuto uno dei suoi momenti più leggendari: i 21 minuti del set con cui John Deacon, Brian May, Freddie Mercury e Roger Taylor (in ordine alfabetico, come piaceva a loro) stregarono i 72mila assiepati a Wembley e il miliardo e mezzo di telespettatori di oltre 100 Paesi collegati in quel 13 luglio di quarant’anni fa.
Il manager Jim Beach stentava a crederci: stava proponendo loro un’occasione di quelle che non si possono rifiutare, il Live Aid, un evento unico e irripetibile in cui tutte, ma proprio tutte le stelle della musica mondiale avrebbero condiviso un palco a Londra e uno a Philadelphia. E loro invece stavano rifiutando eccome. Sì, abbiamo già venduto 90 milioni di dischi, siamo strafamosi in qualunque angolo del globo e allora? Non ci saremo, punto e basta.
Beach conosceva i suoi polli. Sapeva che arrivavano da un periodo di profondi litigi interni. Aveva sentito anche lui le voci che circolavano su una possibile separazione imminente. Sapeva quanto irsuti e intrattabili potessero essere certe volte i Queen. Ma sapeva anche come prenderli.
Solleticò i più vanesi (il loro show sarebbe stato visto dall’equivalente di un terzo dell’intera popolazione mondiale dell’epoca), titillò i più pigri (dopotutto avrebbero suonato nel cortile di casa) e non diede appiglio agli annoiati (cosa vuoi che sia un concerto di soli 20 minuti, rispetto ai soliti 100 e più?). Taylor, amico personale di Bob Geldof – la mente del Live Aid – cedette per primo. Gli altri lo seguirono. Ultimo a convincersi fu Mercury, un po’ per l’enorme risonanza mediatica che l’iniziativa aveva avuto già da quando era stata annunciata al mondo e un po’ per quello che gli disse May: «Se il giorno dopo questo Live Aid ci sveglieremo senza esserci stati, sono sicuro che saremo tristi». E Mercury disse di sì alla sua maniera: «Oh fuck it, we’ll do it!».
Contattarono Geldof per i dettagli tecnici: quali brani suonare, anzitutto. «Niente elucubrazioni, puntate tutto sulle hit. Avete 17 minuti», la risposta. Capirai, altro motivo di discussioni velenose fra loro. Alla fine ne uscirono con una scaletta esplosiva: “Bohemian Rhapsody”, “Radio GaGa”, “Hammer to Fall”, “Crazy Little Thing Called Love”, “We Will Rock You” e “We Are the Champions”. Questione chiusa? Macché. Altro problema: l’orario dell’esibizione. Il loro live show era da sempre concepito per il buio. Stavolta qualcuno ebbe un’intuizione decisiva: meglio non chiudere l’evento come ultima band, ma suonare alle 18.40, quando c’è il massimo ascolto per la Bbc e anche gli americani non saranno ancora stanchi per la maratona musicale.
Quando si trattava di preparare i live, i Queen erano una macchina da guerra. E così fu anche quella volta. Si rinchiusero per tre giorni consecutivi in un teatro di posa in un quartiere centralissimo, comodo da raggiungere per tutti: ore e ore a provare e riprovare la scaletta ossessivamente, cronometro alla mano, accorciando le versioni per rientrare nei 17 minuti imposti. Mercury si era messo in testa di inserire nello show anche uno dei momenti più amati dai suoi fan: il botta e risposta con il pubblico improvvisato ogni volta, quello che tutti oggi conoscono dalle sue prime battute «Aaaay-Oh!». Convenirono sul fatto che avrebbe funzionato anche se quei 72mila non sarebbero stati tutti loro fedelissimi.
Arrivò il giorno. Si presentarono a Wembley alle 14, entrando da un ingresso secondario. Il tempo di prendere possesso dei camerini, rilassarsi chiacchierando con David Bowie e Mick Jagger, Roger Daltrey e Paul McCartney, sorseggiando tè e chiedendo l’un l’altro notizie di figli e mogli e amici comuni. Come se nel frattempo non si stesse facendo la Storia, sul palco là dietro.
La Storia l’avrebbero fatta loro. Fra le 18.41 e le 19.02. Scesi dal palco, rientrarono nei camerini. Silenzio stordito, poi abbracci soddisfatti. E l’amico di sempre Elton John che entrò senza avvisare: «Bastardi, vi siete rubati lo show».
di Valentino Maimone
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- Tag: musica, spettacoli