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Rap, il canto di una Napoli moderna e cosmopolita

Il rap partenopeo rappresenta da anni l’ultima frontiera di una musica che continua ad evolversi: da tempo c’è un processo di contaminazione tra tradizione e neo modernità stilistica.
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Rap, il canto di una Napoli moderna e cosmopolita

Il rap partenopeo rappresenta da anni l’ultima frontiera di una musica che continua ad evolversi: da tempo c’è un processo di contaminazione tra tradizione e neo modernità stilistica.
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Rap, il canto di una Napoli moderna e cosmopolita

Il rap partenopeo rappresenta da anni l’ultima frontiera di una musica che continua ad evolversi: da tempo c’è un processo di contaminazione tra tradizione e neo modernità stilistica.
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Il rap partenopeo rappresenta da anni l’ultima frontiera di una musica che continua ad evolversi: da tempo c’è un processo di contaminazione tra tradizione e neo modernità stilistica.
L’enorme successo della serie tv “Gomorra” lancia il brano “Testamento (La resa dei conti)” dei Bloody Vinyl – sigla che racchiude più interpreti – e ne sancisce l’affermazione nel mondo dell’hip-hop e delle classifiche pop. D’altronde è risaputo che il rap partenopeo rappresenti da anni l’ultima frontiera della nostra musica. E l’esempio della napoletanità ‘sottoproletaria e di periferia’ è così forte che persino il neo melodico Gigi D’Alessio ha pensato bene di rilanciare i suoi successi nell’album “Buongiorno” con i nomi forti del rap campano. Tra questi, Geolier e il salernitano Rocco Hunt. Le radici di questo processo di contaminazione tra tradizione e neo modernità stilistica risuonano di echi lontani. Sembrano passati secoli da quando Tullio De Piscopo lancia nel 1984 “Stop Bajon”, scritto da Pino Daniele. Da allora il rap di Napoli è rimbalzato nel tempo attraverso l’affermazione di Zulu e Soci, la Famiglia, i 13 Bastardi, Alea. Fino ad arrivare ai nomi di oggi. Oltre al già citato Geolier, ci sono J Lord, rapper diciottenne di Casoria, e il coetaneo Vettosi, da Secondigliano; Enzo Dong, 30 anni, cresciuto in quartieri difficili come Piscinola e Scampia; Lele Blade, 33 anni. E ancora, NTO’ & Lucariello che canta-declama “Nuje vulimme ‘na speranza”, perfettamente in linea con le atmosfere drammatiche e decadenti di “Gomorra”, della cui colonna sonora fa parte. Sono loro a segnare i profili geopolitici del nuovo rap napoletano. Il canto, come i contenuti, provengono da quella trasformazione urbana e socio-culturale che investe Napoli e le grandi città italiane tra gli anni Ottanta e Novanta. Scrive Antonella Putignano nel volume “Napule’s Power”: «I ragazzi di Napoli, come quelli di Roma e Milano, cantavano, rimavano, ballavano la protesta, occupando gli spazi, i luoghi, con un sentimento urgente: un linguaggio carico di promesse». Il rap di matrice partenopea ha però nella sua estetica una diversità che ne definisce l’unicità: il dialetto, che nel suo essere ritmicamente ‘americanizzato’ è capace di creare una nuova lingua. I 99 Posse vengono dall’humus sprigionato dal Centro sociale Officina 99. Gli Almamegretta viaggiano loro a fianco, impegnati tra ricerca, tradizione e avanguardia. Con Clementino che viene da Avellino, il rap della capitale del Mezzogiorno trova forse la sua figura più connotabile. E non si può non citare ‘Spaccanapoli’, album dei Clan Vesuvio che darà i natali artistici a molti nomi di oggi: Ganzo, Liberato, Speranza. Quest’ultimo è stato notato da Caterina Caselli che l’ha messo sotto contratto con la Sugar, l’etichetta dei successi di Negramaro e Madame. Alcuni critici musicali paragonano la neo scena hip hop napoletana a quella californiana e di New York quando, a metà degli anni Ottanta, escono i primi vagiti del gangsta rap. Un’equazione forse un po’ forzosa ma significativa di un continuo evolversi musicale, letterario e cosmopolita che il rap di Napoli legge e rappresenta nel rispetto della sua storia.   di Fabio Santini

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