“Ritorno al futuro”, il film che nessuno voleva
Quarant’anni fa usciva nelle sale americane (da noi sarebbe arrivato tre mesi dopo) “Ritorno al futuro”
“Ritorno al futuro”, il film che nessuno voleva
Quarant’anni fa usciva nelle sale americane (da noi sarebbe arrivato tre mesi dopo) “Ritorno al futuro”
“Ritorno al futuro”, il film che nessuno voleva
Quarant’anni fa usciva nelle sale americane (da noi sarebbe arrivato tre mesi dopo) “Ritorno al futuro”
Quarant’anni fa usciva nelle sale americane (da noi sarebbe arrivato tre mesi dopo) “Ritorno al futuro”. Già soltanto nel citare il titolo, la mente corre subito alla magnifica auto DeLorean che sfreccia tra epoche diverse, all’esuberante e carismatico Michael J. Fox nei panni di Marty McFly, alla genialità eccentrica di Doc Brown interpretato da Christopher Lloyd. Eppure quello che oggi è considerato un capolavoro generazionale fu incredibilmente rifiutato (per più di 40 volte) dagli studios hollywoodiani. Troppo audace per alcuni e troppo ‘pulita’ per altri, la creatura del regista Robert Zemeckis vide la luce soltanto grazie alla tenacia e alla lungimiranza.
Tutto iniziò nei primi anni Ottanta, quando lo sceneggiatore Bob Gale – sfogliando l’annuario scolastico del padre – si pose una domanda semplice ma affascinante: «Se fossi andato a scuola con mio padre, saremmo stati amici?». Insieme a Zemeckis, Gale immaginò un film in cui un adolescente viaggia indietro nel tempo e si ritrova faccia a faccia con i propri genitori anch’essi teenager. Ma Hollywood non era pronta. I viaggi nel tempo erano considerati un rischio commerciale e la Disney in particolare bollò con disgusto il sottotesto ‘edipico’ tra il protagonista Marty e la giovane versione di sua madre. Per anni la sceneggiatura fu respinta da tutti. Solo Steven Spielberg, già celebre per “E.T.” e “I predatori dell’arca perduta”, ne riconobbe il potenziale e decise di produrlo.
Ma la realizzazione non fu meno travagliata. Il ruolo del protagonista venne inizialmente affidato a Eric Stoltz, attore allora promettente ma privo dei tempi comici necessari. Dopo cinque settimane di riprese, Zemeckis prese una decisione folle: ricominciare da capo con Michael J. Fox, che era la prima scelta originaria ma in quel periodo era impegnato con la sitcom “Family Ties” (in Italia noto come “Casa Keaton”). Fox accettò lo stesso e finì per lavorare su due set contemporaneamente: quello della sitcom di giorno e quello di “Ritorno al futuro” di notte. Eppure la sua energia era travolgente. Ogni scena con lui prendeva vita, grazie anche al perfetto affiatamento con Christopher Lloyd (lo scienziato visionario Doc Brown, un mix tra Albert Einstein e il direttore d’orchestra Leopold Stokowski). La relazione fra i due è il vero cuore emotivo del film, un’amicizia fuori dagli schemi ma incredibilmente sincera.
Altro colpo di genio fu la scelta della DeLorean DMC-12 come macchina del tempo. Auto fallimentare nella realtà dal punto di vista delle vendite, divenne nella finzione un’icona assoluta. Per far viaggiare i personaggi nel tempo si era pensato inizialmente a una cabina telefonica o a un frigorifero, ma la prima rimandava troppo alla serie britannica “Doctor Who” e il secondo fu evitato per motivi di sicurezza dei bambini (che avrebbero potuto emulare i protagonisti). La DeLorean invece, con il suo design futuristico e le portiere ad ali di gabbiano, era perfetta per affascinare il pubblico.
Dopo il successo del primo film, gli studios imposero due sequel. Zemeckis e Gale accettarono a patto di poterli girare contemporaneamente, impresa quasi inedita a Hollywood. Il lavoro fu estenuante: il cast cambiava epoca, costumi e tono da un giorno all’altro, mentre Zemeckis montava il secondo film durante le riprese del terzo. Una follia logistica che però fu ripagata con una trilogia leggendaria.Il successo di “Ritorno al futuro” va oltre la nostalgia. È una parabola sul libero arbitrio, sull’identità e sulla possibilità di cambiare il proprio destino. Oggi, in un’epoca dominata da sequel forzati e remake senz’anima, quel film che nessuno voleva resta un esempio raro di cinema nato da un’intuizione sincera e da una domanda quasi infantile. Che ha però saputo parlare a milioni di persone.
di Stefano Faina e Silvio Napolitano
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