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45 anni fa ci lasciava Giuseppe Meazza

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I medici avevano dato il loro responso. Secondo loro quel ragazzino gracile tutto avrebbe potuto fare meno che lo sportivo. Il giovane era Giuseppe Meazza

45 anni fa ci lasciava Giuseppe Meazza

I medici avevano dato il loro responso. Secondo loro quel ragazzino gracile tutto avrebbe potuto fare meno che lo sportivo. Il giovane era Giuseppe Meazza

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45 anni fa ci lasciava Giuseppe Meazza

I medici avevano dato il loro responso. Secondo loro quel ragazzino gracile tutto avrebbe potuto fare meno che lo sportivo. Il giovane era Giuseppe Meazza

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I medici avevano dato il loro responso. Secondo loro quel ragazzino gracile tutto avrebbe potuto fare meno che lo sportivo. Anzi, sarebbe stato meglio che si dedicasse ad altro. Ad esempio ad aiutare la madre, la signora Ersilia, che sgobbava al mercato ortofrutticolo, vedova precoce di un caduto della Grande Guerra e donna tutta d’un pezzo. Si sbagliavano, quei dottori. Perché quel giovane, che di nome faceva Giuseppe e di cognome Meazza, giocherà eccome.

Ambidestro dalla tecnica raffinata, si forma nei campetti della periferia milanese di Porta Vittoria, il quartiere nel quale era nato il 23 agosto 1910. Non ci vuole molto perché lo notino i dirigenti dell’Ambrosiana. Qui “Peppìn” incontra due uomini che gli cambieranno la vita. Il primo è Arpad Weisz, innovativo tecnico ungherese. Il secondo è il “dottore” Fulvio Bernardini che di quella squadra è il leader indiscusso in campo. Il giovane Meazza viene lanciato in prima squadra in una partita della Coppa Volta. Pronti, via e segna tre gol. Nasce così la stella del più forte calciatore italiano dell’epoca. Non passa molto tempo prima che il regime di Mussolini cerchi di appropriarsi della crescente popolarità dell’atleta, descrivendolo come un «perfetto fascista» che «tiene la foto del Duce sul comodino». Quell’accostamento gli varrà un altro soprannome, quello di “Balilla”. Ma il campione meneghino con le camicie nere c’entra poco e niente. È uno che ama la bella vita, le belle donne e le balere, nelle quali si presenta sempre ben vestito e con i capelli impomatati, lontano anni luce dalla narrativa tutta dolore e sacrificio che la dittatura vorrebbe vendere alle masse.

Nel 1930 Meazza esordisce a vent’anni in Nazionale contro la Svizzera, a Roma. Nel primo tempo non ‘gira’ ed ecco che dagli spalti arrivano i primi mugugni. Poi il centravanti azzurro segna due reti decisive e porta il pubblico dalla sua parte. Nel 1934 è il protagonista della vittoria ai Mondiali in Italia e quattro anni dopo, nella rassegna iridata in Francia, si carica sulle spalle una squadra che viene accolta dai fischi. All’epoca il primo ministro transalpino Édouard Daladier aveva infatti scelto di dare asilo agli antifascisti italiani e questi dalle tribune non mancano di far sentire il loro disappunto verso la ‘Nazionale del Fascio’. Ma Meazza incanta anche i detrattori, segna un rigore decisivo divenuto leggendario contro il Brasile e ci porta in finale. Vinciamo anche stavolta.

Poi accade qualcosa. Nell’agosto di quell’anno inizia in Italia il censimento degli ebrei. È il preludio alle leggi razziali. Ne rimarrà vittima anche colui che aveva lanciato la carriera di Meazza, quell’Arpad Weisz che finirà i suoi giorni ad Auschwitz. Chissà, forse nella mente e nel cuore di Peppino qualcosa in quei giorni si rompe. Nel 1940 passa al Milan, poi è la volta di Juventus, Varese e Atalanta, prima di tornare all’Inter e chiudere la carriera nel 1947 con oltre 300 gol segnati all’attivo e lo status di ‘leggenda’.

Se ne va il 21 agosto 1979, esattamente quarantacinque anni fa, e pochi mesi dopo lo stadio di San Siro prenderà il suo nome. Un tributo doveroso a un campione straordinario e unico che il potere aveva provato a usare come proprio simbolo. Ignorando che chi, come Meazza, ha fatto sognare la gente apparterrà sempre e soltanto al popolo.

di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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