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Il calcio tra le dita

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Gli azzurri hanno alzato al cielo la Coppa del Mondo di specialità. E lo hanno fatto per la sedicesima volta in ventidue edizioni. Si tratta della squadra italiana di Subbuteo, l’iconico gioco da tavolo che a cavallo degli anni Settanta e Novanta ha segnato i pomeriggi di milioni di ragazzini

Il calcio tra le dita

Gli azzurri hanno alzato al cielo la Coppa del Mondo di specialità. E lo hanno fatto per la sedicesima volta in ventidue edizioni. Si tratta della squadra italiana di Subbuteo, l’iconico gioco da tavolo che a cavallo degli anni Settanta e Novanta ha segnato i pomeriggi di milioni di ragazzini
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Il calcio tra le dita

Gli azzurri hanno alzato al cielo la Coppa del Mondo di specialità. E lo hanno fatto per la sedicesima volta in ventidue edizioni. Si tratta della squadra italiana di Subbuteo, l’iconico gioco da tavolo che a cavallo degli anni Settanta e Novanta ha segnato i pomeriggi di milioni di ragazzini
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La Nazionale di calcio non parteciperà ai Mondiali in Qatar. E questo è un fatto risaputo. Ci sono invece altri azzurri del pallone che hanno alzato al cielo la Coppa del Mondo di specialità. E lo hanno fatto per la sedicesima volta in ventidue edizioni. Si tratta della squadra italiana di Subbuteo, l’iconico gioco da tavolo che a cavallo degli anni Settanta e Novanta ha segnato i pomeriggi di milioni di ragazzini. Interminabili partite attorno al panno verde sul quale i ventidue mini calciatori rotolavano dopo essere stati sfiorati con l’unghia delle dita: l’indice se si cercava la potenza, il medio se invece si voleva essere più accurati. A ricreare il clima degli stadi dentro le case non era soltanto il gioco in sé. Erano soprattutto la passione, il calore, l’entusiasmo, proprio come avviene all’interno di uno stadio. Da chi improvvisava la finale di Coppa del Mondo su un unico match a chi accompagnava ogni azione con un grido soffocato che serviva a riprodurre l’urlo della folla, fino ai più estremisti che simulavano giornata per giornata un intero campionato. Ognuno aveva la sua squadra preferita, il suo pallone preferito ma anche i propri rituali portafortuna. L’idea di far entrare i principali stadi europei e le relative squadre nelle case degli adolescenti si deve a Peter Adolph, un ornitologo inglese con la passione per il football. L’inizio non fu entusiasmante: l’ufficio brevetti di Londra bocciò il nome proposto – Hobby, una razza di falcone da lui particolarmente amata – perché nessuno lo avrebbe associato all’ornitologia ma al significato corrente di passatempo. Ed essendo troppo generico non poteva essere utilizzato in via esclusiva e commerciale. Adolph non si perse d’animo e trovò un escamotage adottando il nome latino dello stesso uccello: falco Subbuteo, il cui becco oltretutto ricorda la posizione del dito quando colpisce il calciatore in miniatura. Quando nel 1996 Paolo Di Canio passò dal Milan al Celtic di Glasgow non ebbe esitazioni a dire in un’intervista che l’unica cosa che sapeva della sua nuova squadra era che giocasse con una casacca a righe bianche e verdi. E questo perché da bambino aveva comprato il kit in scatola della squadra scozzese. Il Subbuteo viene spesso utilizzato dagli allenatori professionisti durante le riunioni tecniche per spiegare le tattiche e replicare situazioni di gioco. Si racconta che, durante i suoi anni alla Lazio, Sven-Göran Eriksson fosse solito ricevere la colazione in camera perché studiava le partite a letto con una tavola da Subbuteo sulle gambe. «Col Subbuteo mi sento come a casa mia» ha invece detto Antonio Conte nel corso di una intervista alla tv inglese. E infatti, scorrendo le foto nelle sue pagine social, spicca la presenza del panno verde nello spogliatoio di tutte le squadre che ha allenato. Bill Shankly, leggendario allenatore del Liverpool, aveva ideato un metodo per accrescere l’orgoglio dei propri calciatori alla vigilia delle sfide sempre accese contro il Manchester United. Dopo aver disposto sul panno le undici pedine dei Red Devils, le toglieva a una a una dicendo: «Questo non sa giocare». Passata in rassegna I’intera squadra, si fermava quando restavano tre soli giocatori: Denis Law, Bobby Charlton e George Best. E poi commentava: «Se undici giocatori del Liverpool non sono in grado di batterne tre, allora non avete il diritto di indossare la maglia».   Di Stefano Caliciuri

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