Il vero KO di Muhammad Ali
Il 17 gennaio 1942 nasceva Muhammad Ali, il più grande pugile della storia. Un campione non solo sul ring ma anche nella vita: rifiutò di andare in Vietnam e combatté con forza il razzismo. Non senza conseguenze sulla sua carriera.
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Il vero KO di Muhammad Ali
Il 17 gennaio 1942 nasceva Muhammad Ali, il più grande pugile della storia. Un campione non solo sul ring ma anche nella vita: rifiutò di andare in Vietnam e combatté con forza il razzismo. Non senza conseguenze sulla sua carriera.
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Il 17 gennaio 1942 nasceva Muhammad Ali, il più grande pugile della storia. Un campione non solo sul ring ma anche nella vita: rifiutò di andare in Vietnam e combatté con forza il razzismo. Non senza conseguenze sulla sua carriera.
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Il 17 gennaio 1942 nasceva Muhammad Ali, il più grande pugile della storia. Un campione non solo sul ring ma anche nella vita: rifiutò di andare in Vietnam e combatté con forza il razzismo. Non senza conseguenze sulla sua carriera.
“La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona solo perché ha la pelle più scura. Oppure a gente povera e affamata, nel fango, per la grande e potente America”. Così Muhammad Ali spiegava ai giornalisti il suo rifiuto reiterato alle armi, alla guerra del Vietnam. “A sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Come posso sparare a quelle povere persone?”.
Era il 28 aprile 1967 e nessuno sapeva che da quel giorno Cassius Marcellus Clay Jr., questo il vero nome di Muhammad Ali prima della conversione all’Islam del ‘64, sarebbe diventato un campione, oltre che sul ring, anche nella vita.
La sua battaglia sarebbe stata da quel momento in poi contro i “suprematisti bianchi” (il “white power” – il “potere bianco”) che negavano i diritti delle persone di colore, anche se americani come loro.
Che allo Zio Sam non fosse andata a genio quella storica decisione di Ali lo si capì fin da subito; storica perché dire di no significava tradire i valori del buon cittadino americano. E il fatto che il rifiuto arrivasse da un cittadino celebre, che tanto aveva ricevuto dal sogno a stelle e strisce, riusciva a dare ancora più fastidio all’opinione pubblica che aveva ancora vivo il ricordo di pochi anni prima, quando Elvis Presley, all’apice della carriera, si lucidava gli anfibi e si faceva radere il ciuffo ribelle a favor di telecamera. Era il 1958 quando il re del rock – più per una questione di immagine – mollò tutto per due anni facendo la sua parte da “buon cittadino americano che mette la patria prima di tutto”.
Muhammad Ali pagherà caro quelle interviste tanto che le conseguenze delle sue parole incideranno direttamente sulla sua carriera. Già il giorno seguente, infatti, la Commissione pugilistica dello Stato di New York decide di ritirare ad Ali la licenza di pugile dichiarandolo “decaduto dal titolo iridato”. Inoltre una giuria di soli bianchi lo condanna a 5 anni di carcere e 10 mila dollari di multa.
Ali rinuncia a combattere per oltre 3 anni, perdendo di fatto gli “anni migliori” per un pugile che fino a quel momento continuava a macinare vittorie su vittorie. Tutto questo per combattere il suo reale nemico: il razzismo. Tornerà sul ring solo nel 1971 quando la Suprema corte gli riconoscerà “il diritto all’obiezione di coscienza”.
Gli episodi di razzismo nell’America dell’epoca, infatti, erano fin troppo comuni. E non si facevano sconti a nessuno. Anche dopo il primo grande trionfo della sua carriera, la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma 1960 appena diciottenne, tornato negli USA, quando entrò in un ristorante non gli diedero da mangiare perché alla porta d’ingresso c’era appeso un cartello con la scritta “White people only” (“Solo per le persone bianche”).
La situazione peggiora ulteriormente dopo la sua conversione all’Islam e le offese quotidiane si ripercuotono anche sul ring stesso, dove normalmente si dovrebbe solo pensare a vincere. Rimane nella storia il match del 6 febbraio 1967 contro Ernie Terrell all’Astrodome di Houston. Muhammad Ali vince e diventa campione del mondo dei pesi massimi ma il combattimento viene ricordato per ben altro motivo: Ali, mentre colpisce ripetutamente Terrell, continua a ripetergli: “What’s my name?” (“Come mi chiamo?”) questo perché Ernie in una precedente intervista doppia fatta insieme ad Ali prima del’incontro si era più volte rifiutato di chiamarlo con il nome assunto dopo la conversione all’Islam.
I meriti del “The Greatest” (“Il migliore”), come veniva soprannominato Ali, sono civili oltre che sportivi. Paladino dei diritti afroamericani e uomo simbolo contro la guerra, ancora oggi è un esempio per intere generazioni e tra le principali icone del movimento Black Lives Matter.
A 80 anni dalla nascita di Ali, molte cose sono cambiate nella società statunitense anche se, purtroppo, non mancano episodi di razzismo. Certo, non si vedono più cartelli fuori dai ristoranti che vietano l’accesso alle persone di colore ma vicende come il caso George Floyd fanno comprendere come, ancora oggi, servirebbero molti altri Muhammad Ali.
di Filippo Messina
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Tag: razzismo
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