Quando si giocava (solo) la domenica
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                Quando Giovanni Lodetti giocava a calcio si giocava solo di domenica. Il giorno consacrato al nostro sport nazionale, prima che tutto cambiasse
        
        		
				
	
		
	
		
        
	
		
	
		
        
        
    
Quando si giocava (solo) la domenica
Quando Giovanni Lodetti giocava a calcio si giocava solo di domenica. Il giorno consacrato al nostro sport nazionale, prima che tutto cambiasse
        
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Quando si giocava (solo) la domenica
Quando Giovanni Lodetti giocava a calcio si giocava solo di domenica. Il giorno consacrato al nostro sport nazionale, prima che tutto cambiasse
        
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AUTORE: Fulvio Giuliani
Oggi è domenica e quando Giovanni Lodetti giocava al calcio, si giocava solo di domenica. Il giorno consacrato al nostro sport nazionale, prima che tutto cambiasse. La modernità non si ferma, per carità, ma può esistere solo avendo la massima cura delle sue radici. Se parliamo di calcio, le radici sono in quegli anni incredibili a cavallo fra i Sessanta e i Settanta. Anni in cui l’Italia espresse una serie di campioni spettacolari. Squadre magnifiche, personaggi irripetibili, talenti destinati a fare la storia dei club e della Nazionale.
Giovanni Lodetti era lì, correva per tutti. Anche il doppio se necessario, pur di permettere alla propria squadra di sfruttare al massimo la classe sconfinata di un Gianni Rivera. Lodetti, peraltro, era un giocatore fortissimo e vinse tutto, ma il suo valore senza tempo risiede nel come vinse: era parte della generazione dei campioni nati negli anni della guerra o subito dopo, in un’Italia distrutta e in macerie. Figli di famiglie umili, ma decise a conquistare a tutti i costi una vita migliore per i propri ragazzi. Non c’era sacrificio troppo grande da sopportare e tutto partiva da un’educazione semplice e ferrea: si doveva essere persone perbene, quale che fosse l’attività scelta o imposta dal destino.
Per ragazzi come Giovanni Lodetti, il calcio – vivere di calcio – è stata una fortuna da meritare giorno dopo giorno. Anche una volta terminata la carriera da professionista. Ho avuto il privilegio di conoscerlo e di passare decine di serate con lui in Tv a parlare di pallone. “Basleta” – il soprannome dovuto a quel mento pronunciato, un po’ alla Totò – era parte di un’Italia bella, tosta, sorridente e ottimista.
Poi veniva l’Italia azzurra, quella Campione d’Europa 1968 e del 4-3 alla Germania Ovest nel ‘70 (Lodetti era stato tagliato dalla spedizione in Messico, gli avevano offerto di ‘coprirlo’ con un infortunio diplomatico e lui rifiutò sdegnosamente). Era l’Italia dei ragazzi per cui l’azzurro era tutto.
Ascoltate Gianni Rivera, Sandro Mazzola o Gigi Riva parlare della Nazionale, guardateli negli occhi mentre lo fanno o mentre accarezzano quelle casacche segnate dal tempo. I loro gesti esprimono un amore e un rispetto che andrebbe portato nelle scuole. Non le scuole calcio, ma proprio fra i banchi per spiegare ai ragazzi di oggi cosa volesse dire vivere di sogni e dare tutto per realizzarne anche solo una piccola parte.
Di Fulvio Giuliani
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