Ogni appassionato di calcio, a qualsiasi latitudine, sviluppa un rapporto simbiotico con la maglia della squadra del cuore. È qualcosa di intimo, che non si può spiegare razionalmente: i colori, la maglia sono qualcosa di sacro. Laicamente parlando, si intende.
Non si toccano (non si dovrebbero toccare) le strisce verticali bianconere, nerazzurre e rossonere, il leggendario granata, il glorioso rossoblù verticale, l’azzurro del cielo, il celeste, le bande orizzontali bianche rosse e nere su sfondo blu, la grande fascia rossa su sfondo bianco, il rosso vermiglio, il blaugrana, il biancorosso verticale, la fascia obliqua rossa su fondo bianco e il giallo sul blu.
Potremmo andare avanti all’infinito, solo che il marketing – vale a dire l’esigenza di vendere sempre più maglie, più volte all’anno – ha stravolto tutto questo. Giocando sulle seconde e terze divise da gioco e arrivando infine a intaccare la suddetta sacralità della ‘prima maglia’. Il vestito del cuore di tanti di noi.
In Italia e in Inghilterra, le regole volute dalle Federazioni per porre un limite a questa deriva e al salasso dei portafogli dei tifosi sono nel mirino di chi vorrebbe una totale deregulation. Anche nei grandi quotidiani sportivi non ci si preoccupa troppo della storia. Da parte nostra, non amiamo l’idea della resa all’andazzo generale, perché ignorare la tradizione significa disprezzare i sentimenti di milioni di persone. Un gioco che può rendere molto nell’immediato, ma trasformarsi in un boomerang allentando l’empatia tifoso-squadra.
di Diego de la Vega
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