In questi anni le serie tv si sono sbizzarrite sui boss, i narcotrafficanti, la malavita. E così accade che a L’Aquila la polizia arresti 13 giovani componenti di una baby gang e subito fiocchino i paragoni con un certo mondo criminale. Perché questi ragazzi, per la stragrande maggioranza minorenni, dettavano legge nel centro della città. Atti persecutori, violenze, estorsione, spaccio: questi alcuni dei reati di cui sono accusati. Ma quello che colpisce, almeno per farci qualche titolo, è che chi veniva considerato il “boss” del gruppo pronunciasse frasi del tipo: «Spaccia per noi oppure muori». Tanto basta per paragonarli ai camorristi, almeno giornalisticamente.
Per quanto certi accostamenti siano di sicuro effetto, esiste però una enorme differenza tra il parlare come un camorrista e l’esserlo. Tanto più che le stesse forze dell’ordine sottolineano come questi ragazzi provassero a imitare altri gruppi criminali. Un desiderio di emulazione che si unisce al fatto che, dopo aver guardato quelle serie tv, tutti quanti ormai possiamo metterci a parlare come boss. Ammesso che il resoconto televisivo sia veritiero, perché andrebbe ammesso che nessuno di noi può dire con certezza di sapere come si esprimano i camorristi. Ciò naturalmente non toglie nulla all’ennesima dimostrazione di quanto il fenomeno delle baby gang sia diffuso e vada combattuto. Anche a partire dagli adulti, quei genitori che probabilmente sono i primi a trasmettere questo tipo di modello – compreso il modo di parlare – ai loro figli.
Di Annalisa Grandi
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