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Giustizia e pietà
Giustizia e pietà
Giustizia e pietà
E adesso che facciamo? Facile: una legge. La commozione e l’angoscia per l’efferatezza con la quale è stata uccisa Giulia Cecchettin tracimano ovunque, anche quando di fronte a simili tragedie silenzio e raccoglimento sarebbero la risposta più rispettosa. Ma nell’era del villaggio globale, della comunicazione onnipresente e onnisciente non si può. Di più: non si deve. Perciò sotto col profluvio di commenti, analisi, invettive, polemiche e chi si sottrae passa per un codardo che non vuole o peggio non sa prendere posizione con l’indispensabile bagaglio di indignazione. In casi del genere, purtroppo sempre più frequenti, il discorso privato – giustamente – sfugge a qualunque valutazione: chi patisce un dolore così atroce ha il sacrosanto diritto di pronunciarsi come vuole. Quello pubblico va invece centellinato o almeno dovrebbe esserlo, per evitare enfasi a buon mercato. Riguarda la politica, intesa nel suo senso più nobile e complessivo, di discrimine fallace ma indispensabile per ordinare la vita delle comunità secondo princìpi che esulano dalla barbarie e ci prendono per mano verso la convivenza civile. Vuol dire che dovremmo confrontarci tutti con l’umiltà, la compostezza, la consapevolezza che si maneggiano materie delicate e al tempo stesso esplosive.
Bene, basta guardare i giornali, mettersi davanti alle tv o, in un esercizio di masochismo comunicativo, connettersi a un social a piacere per vedere che le cose vanno in direzione opposta. E allora. Primo: dividersi per schieramenti più o meno partitici su temi del genere è una follia che non possiamo permetterci. Non può consentirselo qualsiasi Paese, tanto più l’Italia dei guelfi e ghibellini in servizio permanente effettivo. Secondo: invocare una legge come se fosse la manna dal cielo, la panacea che tutto risolve è un esercizio tanto consolatorio quanto evanescente. Sono dieci anni che l’Italia ha recepito nel suo ordinamento il Protocollo di Istanbul contro la violenza di genere: i femminicidi non sono diminuiti (neppure aumentati, per fortuna). Ora il Parlamento si appresta a varare nuove norme sullo stesso tema, ma neppure i più entusiasti arrivano a dire che sia la ricetta adeguata a fermare l’abominio degli assassinii di donne da parte di mariti, fidanzati, compagni. Questo perché le leggi già ci sono: contro gli omicidi e qualunque cosa gli assomigli. Ma ogni donna sa che andare in giro di notte con la Gazzetta Ufficiale nella borsetta non la preserverà da rischi e possibili aggressioni. Come pure far entrare il codice penale nei salotti e nelle camere da letto, stabilendo lo Stato quali siano i comportamenti da tenere nelle relazioni uomo-donna, ha un occhiuto sapore da regime autoritario che invece di soluzioni produce danni.
Sappiamo tutti che quel che davvero serve è un’evoluzione culturale, una crescita delle coscienze, una valorizzazione della dignità femminile, uno spartiacque sano nel rapporto uomo-donna che contempli tutti i settori di una comunità: da quello economico a quello sociale a quello personale. E quando si deve intervenire per esercitare la giustizia e la punizione dei colpevoli è fondamentale rifarsi ai precetti dello Stato di diritto, ai verdetti pronunciati dai tribunali e non iscritti nei tubi catodici o negli algoritmi. Al senso di pietà che deve pervadere chi è chiamato a giudicare. Nello splendido testo teatrale di Luciano Violante dedicato a Clitennestra si racconta di come scenda nell’Ade e incontri Cassandra, amante del marito Agamennone e che lei ha ucciso per vendicare il sacrificio della figlioletta Ifigenia. Quando le due donne s’incontrano, Cassandra si rivolge alla sua assassina sussurrando: attenta, non c’è giustizia senza pietà. È il sentimento laico che dovrebbe prevalere. Vige da millenni, ma in tanti non l’hanno ancora capito.
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