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Giulia Cecchettin

Il buio nell’anima

La morte di Giulia Cecchettin è un peso per tutti. Si torna sempre allo stesso punto: il rifiuto del rifiuto. Il rifiuto della realtà. La negazione della libertà dell’altro
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Il buio nell’anima

La morte di Giulia Cecchettin è un peso per tutti. Si torna sempre allo stesso punto: il rifiuto del rifiuto. Il rifiuto della realtà. La negazione della libertà dell’altro
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Il buio nell’anima

La morte di Giulia Cecchettin è un peso per tutti. Si torna sempre allo stesso punto: il rifiuto del rifiuto. Il rifiuto della realtà. La negazione della libertà dell’altro
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La morte di Giulia Cecchettin è un peso per tutti. Si torna sempre allo stesso punto: il rifiuto del rifiuto. Il rifiuto della realtà. La negazione della libertà dell’altro
Senti che qualcosa devi scrivere su questa storia allucinante, inconcepibile. Dolorosa fino a lacerarti. Anche a distanza, la morte di Giulia è un peso per tutti. Lo schermo del computer è come un foglio bianco: sembra di essere tornati a scuola, quando proprio non ti usciva nulla, non sapevi come cominciare quel maledetto tema. Eppure l’argomento lo conoscevi, ritenevi – se non di dominarlo – almeno di poterlo sviluppare, ma nulla… il foglio restava ostinatamente bianco. L’abbiamo scritto, l’abbiamo riscritto, sottolineato, richiamato, esclamato e siamo sempre qui. Questo femminicidio ha una sua specificità atroce, un tasso di incredulità che arriva a vette mai concepite, è un fatto. Scritto tutto questo, se si ha la forza e la capacità di provare ad analizzare la sostanza, si torna sempre allo stesso punto: il rifiuto del rifiuto. Il rifiuto della realtà. La negazione della libertà dell’altro. L’affermazione del possesso come ragion d’essere di esseri immondi. L’annullamento di qualsiasi sentimento – non veniteci a parlare di ‘amore’, perché il senso di spaesamento cederebbe al vomito – sull’altare della ‘proprietà’ malata. Non mi interessano i racconti sempre uguali, gli uomini (in questo caso il ragazzo) descritti regolarmente come “insospettabili”, al pari dell’”incomprensibile” esplosione belluina di rabbia e violenza. Quante volte ci siamo dovuti sorbire il refrain “è un bravo ragazzo“, “non ce lo riusciamo proprio a spiegare“, “lei era come nostra figlia“. Queste frasi, nella loro raggelante ritualità (per quanto involontaria, si intende), mettono a nudo uno degli aspetti più drammatici: non riusciamo a capire in famiglia – tanto per cominciare – cosa dire e come fare per insegnare con durezza e senza sconti ai nostri figli che non c’è spazio alcuno per il minimo cedimento. Non si può concedere niente, neppure una voce dal tono troppo alto, figurarsi le minacce o le mani addosso. “Nel matrimonio, nella vita di coppia, succede di litigare…”: a questa banalità, dovremmo abituarci di avere sempre la capacità di aggiungere una lezione sul valore del rispetto. Sull’intangibilità della persona. Altrimenti meglio star zitti. Non basta più – in un mondo che ha visto cambiare radicalmente i rapporti fra generi e generazioni – rifarsi allabuona educazione“, ritenendo di aver fatto il nostro. Dobbiamo esplorare, dobbiamo capire, dobbiamo sondare il grado di maturità affettiva dei nostri figli e delle nostre figlie. Spingerli a parlare, non temere di esporsi, dimostrare le proprie debolezze, prima che si trasformino in demoni. Alle donne, alle nostre ragazze, va ribadito che il concetto dell’ultimo appuntamento va bandito. Per sempre. Non ne possiamo più di “ultimi appuntamenti“. Quando è finita è finita, non è necessario spiegare null’altro. E le famiglie la smettano di girarsi dall’altra parte, perché è successo tante volte e francamente siamo stufi.   di Fulvio Giuliani

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