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Davigo

La condanna di Piercamillo Davigo

Non è un contrappasso, ma un paradosso che Davigo venga condannato (in via non definitiva) per un reato che era lo strumento di lavoro più utilizzato

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La condanna di Piercamillo Davigo

Non è un contrappasso, ma un paradosso che Davigo venga condannato (in via non definitiva) per un reato che era lo strumento di lavoro più utilizzato

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La condanna di Piercamillo Davigo

Non è un contrappasso, ma un paradosso che Davigo venga condannato (in via non definitiva) per un reato che era lo strumento di lavoro più utilizzato

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Non è un contrappasso, ma un paradosso che Davigo venga condannato (in via non definitiva) per un reato che era lo strumento di lavoro più utilizzato

Nel mio mondo – che è quello della civiltà del diritto e della difesa dei diritti individuali, senza i quali non esiste la libertà – Piercamillo Davigo è ancora coperto dalla presunzione d’innocenza, prevista dall’articolo 27 della Costituzione e da un paio di trattati internazionali. Vero è che di quel baluardo della civiltà il dottor Davigo s’è ripetutamente fatto beffe, ma non trovo alcun buon motivo per cercare di somigliargli.

Vedo e leggo una certa soddisfazione, un cesto di risolini beffardi, nell’annunciare che è stato condannato anche in secondo grado per rivelazione di segreti d’ufficio. Trovo sguaiato gioire di una condanna e, comunque, non è ancora passata in giudicato e può ben essere ribaltata in Corte di cassazione. Anzi, glielo auguro perché tanto non cambierebbe nulla di quel che ha rilievo collettivo. E trovo imbarazzante che la non celata soddisfazione, con tanto di allusioni al ritorcersi della severità accusatoria, trovi spazio su mezzi d’informazione che furono e sono complici della distruzione altrui con strumenti giudiziari, senza minimamente avvertire il bisogno che la giustizia abbia fatto tutto intero il suo corso.

Di Davigo furono decantate le doti di finissimo giurista e sottile artefice di accuse, in un festival del decantare che ha la stessa autonomia di giudizio dell’odierno festival dell’affossare. In realtà il sistema, non solo seguito ma teorizzato, è di rara grossolanità: usi l’essere procuratore per accusare, poi passi o fai passare o lasci che passino le selezionate carte d’accusa alla stampa e quindi godi del risultato immediato, perché l’accusato – se è un personaggio pubblico – può dirsi già finito anche qualche anno prima che un processo si veda da lontano. Quando questo metodo prese a essere utilizzato con cadenza quotidiana, la reazione che generò non fu di sdegno ma di emulazione. A quell’inciviltà si candidarono troppi procuratori sparsi per l’Italia e si accodarono speranzosi tanti giornalisti pronti a far da canizza.

Non è un contrappasso, ma un paradosso che Davigo venga condannato (in via non definitiva) per un reato che era lo strumento di lavoro più utilizzato e osannato. Nonché il più in voga ancora adesso. Ci si può sforzare di capire cosa passi per la testa di quanti mettono in onda o in pagina il frutto di quella pratica e, contemporaneamente, ridacchiano per il fatto che uno degli artefici venga condannato e – sforzandoci – forse s’intravvede un nesso: i destinatari della rivelazione, a questo giro, non erano loro. Magari c’è gente di poca memoria, facciamo un piccolo riassunto.

La rivelazione e diffusione degli atti d’indagine ebbe anche una sua teorizzazione giuridica: una volta depositate le carte, affinché possano accedervi non certo i giornalisti ma gli avvocati difensori, il segreto non c’è più perché quei legali sono persone sulla cui riservatezza non c’è da far affidamento. Ora, tralasciando l’offesa all’intera categoria, resta un autentico sollazzo stabilire il perché un difensore debba industriarsi a sputtanare anticipatamente l’assistito. Ma è pur vero che l’esibizionismo delle toghe seppe diffondersi senza badare ai confini interni all’Aula. Capitò, però, che certe carte di Procura arrivassero all’informazione prima d’arrivare non solo agli avvocati, ma anche soltanto ai diretti interessati. Gente libera che apprendeva dalla televisione d’essere arrestata e gente detenuta che apprendeva dalle radioline d’essere stata liberata. Poffarbacco, questo non è bello, chi è il colpevole? Così si apriva l’apposita indagine, che non ha mai portato a nessun colpevole.

L’andazzo è così degenerato che dal copiare le carte delle inchieste si è giunti a chiedere di potere copiare le carte prima delle inchieste, così spostando l’elemosinare dall’uscio di Procura all’orecchio del graduato che può affondare le mani nel calderone delle banche dati. Nel tempo le cose non sono migliorate ma peggiorate e, del resto, i presupposti di legge non sono cambiati e quelli di carriera si sono incancreniti. E anche qui Davigo ha dato il suo prezioso contributo. Siamo arrivati al punto che la nobile categoria degli iscritti all’albo dei giornalisti riproduttori di carte giudiziarie è capace di definire “bavaglio” una legge che non proibisce loro di scrivere riportando una notizia, ma di copiare dalle carte del sodale magistrato, come facevano i somari a scuola. Quella legge non è un bavaglio, ma una caduca foglia di fico.

Ebbene sì, la condanna di Davigo in primo grado è stata confermata in appello. Si è quasi tentati di solidarizzare con il precursore. Ma resisteremo.

di Davide Giacalone

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