Catello Maresca ha ragione da vendere. Noi non abbiamo voglia di comprare scuse. Quel che dice il magistrato Maresca è incontrovertibilmente vero: non è il solo ad avere vestito la toga, fatto il candidato nello stesso posto dove esercitava la funzione di inquirente, perso le elezioni a sindaco e comunque essere divenuto consigliere comunale, salvo volere restare magistrato e chiedere di andare a giudicare gli altri. Vicino, però, altrimenti tocca fare troppa strada per assecondare l’una e l’altra vocazione.
Verissimo: non è il solo. Ma questo mica dimostra che ha ragione, dimostra solo che la schifezza è abbastanza diffusa. Dimostra che la responsabilità di questo comportamento inqualificabile, in dispregio del valore della giustizia e della toga è, al tempo stesso, individuale, diffuso, corporativo, tollerato e avallato dal Consiglio superiore della magistratura. Tutte cose che, a volere avere rispetto della giustizia, sono una l’aggravante dell’altra.
Supporre di non essere il primo e sperare di non essere l’ultimo non è un furbesco modo per allontanare da sé le critiche, semmai conferma che non ha la minima idea, la minima sensibilità – né da politico né da giurista – per capire di cosa stiamo parlando. E stiamo parlando, fra le altre piacevolezze, di uno sfregio alla Costituzione. Prego leggere il terzo comma dell’articolo 98: «Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero».
Contestualizziamo, visto che l’ultimo esame ha dimostrato esserci non pochi analfabeti, fra quanti aspirano a fare il magistrato: a quel tempo iscriversi a un partito era un diritto democratico costato sangue, conquistato anche con la sconfitta nella guerra mondiale, roba preziosissima; a quel tempo dire “partito” e dire “politica” era la stessa cosa, sicché nessuno tiri fuori la gnagnera dell’indipendenza o delle liste civiche; eppure si sapeva e scriveva che non vale per tutti e non vale per chi svolge funzioni che comportano l’uso della forza, della coercizione o della rappresentanza in nome collettivo. Giusto, saggio, sano.
E questo non lo capisce non chi è politicizzato, bensì chi non ha i rudimenti morali e culturali per discernere i confini e i rilievi del ruolo che crede di avere il diritto di svolgere. Roba gravissima. Ed è gravissimo che il corpo della magistratura non si sollevi a cacciare non l’uno o l’altro, ma tutti quelli che così ne monumentalizzano il discredito.
di Gaia Cenol
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