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Il mercato del lavoro in Italia non diventi un tema ‘acchiappa clic’

Il mercato del lavoro in Italia è ad un bivio: si invoca un aumento degli stipendi mentre le aziende litigano per accaparrasi personale qualificato. Basta appelli acchiappa clic: è tempo di guardare la realtà del lavoro in Italia, comprese le realtà scomode.
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Il mercato del lavoro in Italia non diventi un tema ‘acchiappa clic’

Il mercato del lavoro in Italia è ad un bivio: si invoca un aumento degli stipendi mentre le aziende litigano per accaparrasi personale qualificato. Basta appelli acchiappa clic: è tempo di guardare la realtà del lavoro in Italia, comprese le realtà scomode.
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Il mercato del lavoro in Italia non diventi un tema ‘acchiappa clic’

Il mercato del lavoro in Italia è ad un bivio: si invoca un aumento degli stipendi mentre le aziende litigano per accaparrasi personale qualificato. Basta appelli acchiappa clic: è tempo di guardare la realtà del lavoro in Italia, comprese le realtà scomode.
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Il mercato del lavoro in Italia è ad un bivio: si invoca un aumento degli stipendi mentre le aziende litigano per accaparrasi personale qualificato. Basta appelli acchiappa clic: è tempo di guardare la realtà del lavoro in Italia, comprese le realtà scomode.
«Bisogna pagare di più i lavoratori» is the new «Lavorare meno, lavorare tutti». Dichiarazioni facili-facili, ideologiche e sostanzialmente inutili. Chi potrebbe mai dirsi contrario a pagare di più i lavoratori? Il punto è (dovrebbe essere) non limitarsi a generici appelli ‘acchiappa clic’ ma analizzare la realtà del mercato del lavoro in Italia, senza nascondere le realtà scomode.

Riconoscere maggior valore al lavoro è una delle chiavi della nostra epoca, ma il valore non può essere scisso (per convenienza politica, tornaconto personale, ansia di compiacere) dal talento, dalla formazione, dalla voglia di spostare i propri limiti un po’ più in là. Non ha senso invocare generici aumenti di stipendio, senza correre il rischio di innescare una terribile spirale prezzi-salari, paventata ieri dal governatore di Bankitalia Visco.

In questa delicatissima fase post (ci auguriamo) pandemia, gli stipendi sono esposti al rischio di un’erosione di lunga durata a causa dell’inflazione, tornata a livelli sconosciuti da decenni. In Germania sfiora l’8%, riacutizzando antichi terrori; in Spagna ha lambito il 10%; gli Stati Uniti hanno toccato punte da fine secolo scorso; in Italia è a 6,9%, dato più alto dal 1986: una realtà che incide direttamente sul potere d’acquisto dei lavoratori. In Europa l’inflazione è stata innescata dalla corsa dei prezzi delle materie prime. Realtà che pesa anche sui conti delle aziende, costrette a fronteggiare fluttuazioni impressionanti dei costi.

Pensare di proporre aumenti secchi di stipendio senza coordinare gli interventi di tutti i protagonisti – governi, rappresentanti dei lavoratori e dell’impresa, come ha suggerito a Torino l’economista Olivier Blanchard – significa volersi fare dei nemici e al contempo illudere le persone. L’impresa in Italia ha una sua forza a tratti sorprendente (per chi non la conosce), testimoniata dai dati del Pil di ieri a +6,2% su base annua, 0,4% oltre il previsto. Abbiamo tutto per far bene e ai lavoratori va spiegato che la rete di sicurezza del loro futuro passa da ciò che in Italia abbiamo incredibilmente dimenticato: formare. Vale per i giovani come per i più maturi.

Favoleggiamo di stipendi più alti quando abbiamo centinaia di migliaia di posti di lavoro scoperti e destinati a restare tali, perché le aziende non riescono a trovare personale qualificato. Perdiamo tempo in confronti social mentre la leva dei migliori stipendi, dei benefit più apprezzati dai giovani, del worklife balance viene già abbondantemente utilizzata in quella vera e propria guerra che si è scatenata per potersi accaparrare i talenti in circolazione. Sono così pochi (perché non li alleviamo), che le aziende farebbero di tutto per averli. Il dramma è rappresentato dalla massa di lavoratori che non risponde più a ciò che il mercato richiede, perché non qualificata o dequalificata dall’evolvere delle mansioni.

Si può scegliere di prendersela con le imprese, il capitale cinico e baro (del resto, solo pochi anni fa andava per la maggiore un partito che si divertiva impunemente a parlare di “prenditori”), ma questo è solo spettacolo a uso di telecamere e smartphone. Non è una condanna senza appello, purché si decida di parlare degli studenti e non dei professori, quando si affronta il mondo della scuola o dell’università. Ancora, se avremo la forza di cancellare l’idea della cattedra vita natural durante, sostituita dal principio della formazione e della valutazione continua per tutti, professori compresi. Se la finiremo con la sconfortante narrazione dello sfruttamento dei nostri ragazzi e ricominceremo a parlar loro di sogni e obiettivi.

È un tema culturale, prima ancora che normativo: genitori, insegnanti, opinion maker e capi devono avere la capacità di far capire ai più giovani che questa è un’era di grandi opportunità. Solo che – dettaglio non trascurabile – per coglierle è necessario studiare, sperimentare, accettare di sbagliare più di prima. Perché la competizione sarà sempre più elevata e si vincerà solo sul piano della competenza.

  di Fulvio Giuliani

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