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Troppe filiere dinastiche senza cultura manageriale

In Italia l’incidenza delle imprese familiari sul totale delle aziende è del 75% ma per ottenere una crescita reale e una continuità aziendale è necessario investire in soci esterni e manager di comprovata esperienza.
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Troppe filiere dinastiche senza cultura manageriale

In Italia l’incidenza delle imprese familiari sul totale delle aziende è del 75% ma per ottenere una crescita reale e una continuità aziendale è necessario investire in soci esterni e manager di comprovata esperienza.
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Troppe filiere dinastiche senza cultura manageriale

In Italia l’incidenza delle imprese familiari sul totale delle aziende è del 75% ma per ottenere una crescita reale e una continuità aziendale è necessario investire in soci esterni e manager di comprovata esperienza.
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In Italia l’incidenza delle imprese familiari sul totale delle aziende è del 75% ma per ottenere una crescita reale e una continuità aziendale è necessario investire in soci esterni e manager di comprovata esperienza.
Nel mondo l’incidenza delle imprese familiari sul totale delle aziende è stimata al 60%, contro il 75% dell’Italia, dato che si spinge al 95% quando si parla di Pmi. Nel confronto con gli altri, oltre al prevalere del familismo imprenditoriale e del cosiddetto ‘nanismo cronico’ delle nostre aziende, un’altra anomalia riguarda la gestione, molto meno managerializzata rispetto a quella delle imprese familiari dei Paesi, per noi, di riferimento. Per esempio in Francia il management composto da membri della famiglia si riscontra nel 25% delle aziende, in Uk nel 10% mentre in Italia superiamo il 65%. Ora, se consideriamo che meno del 30% delle imprese familiari supera il terzo passaggio generazionale e che si stima che nel decennio in corso circa 2 milioni di nostre imprese saranno interessate da questa fase, si può capire quanto il tema sia importante. Proviamo quindi a delineare cosa va tenuto, cosa va cambiato, perché e come. Il motivo per cui le aziende familiari sono così numerose nel nostro Paese si spiega facilmente: il dato riflette la struttura della nostra società, basata storicamente sulla famiglia. In generale, ciò è positivo perché in queste aziende si riverbera maggiore attenzione al territorio locale, vi sono rapporti basati su eticità e una visione di lungo termine. Se nelle micro e piccole imprese si comprende bene come non si possano attrarre manager professionisti esterni e nemmeno capitali, nelle medio-piccole, medie e medio-grandi il dato risulta anomalo. La globalizzazione richiede dimensione, la digitalizzazione competenze, la terziarizzazione o servitizzazione necessita di una visione meno di prodotto e più di marketing, ergo di aprire il capitale, inserire manager capaci, andare all’estero in modo programmato e strutturato, acquisire e digerire tecnologie nei processi aziendali. Per la nostra classe imprenditoriale si tratta di passaggi difficili ma necessari. Il momento è però molto favorevole. Vi sono infatti capitali pronti da parte di investitori professionali, ovvero family office e private equity; inoltre, le varie crisi degli ultimi anni hanno messo a disposizione delle Pmi un elevato numero di manager esperti, provenienti da anni di carriera in grandi aziende o addirittura multinazionali. Quindi, da un lato urgenza di strutturarsi, dall’altro disponibilità di manager e di tecnologie: gli imprenditori ancora restii superino le proprie barriere e affrontino il cambiamento. Come dice l’illustre esperto aziendale Philip Kotler, esistono due tipi di aziende: quelle che cambiano e quelle che muoiono. Gli imprenditori che vogliono la continuità aziendale e la crescita aprano il capitale a soci esterni e deleghino in parte o in toto la gestione a manager di comprovata esperienza. La struttura della società italiana sta cambiando, succederà anche alle imprese familiari. È inutile mettersi controvento, meglio imparare le nuove regole del gioco e girare la vela nella direzione giusta. di Francesco Orlando

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