Populisti elettoralmente in calo
La contestazione di politica e partiti si esprime soprattutto con l’astensione, non più – non in quella misura – con il consenso alle forze e ai personaggi antisistema
Populisti elettoralmente in calo
La contestazione di politica e partiti si esprime soprattutto con l’astensione, non più – non in quella misura – con il consenso alle forze e ai personaggi antisistema
Populisti elettoralmente in calo
La contestazione di politica e partiti si esprime soprattutto con l’astensione, non più – non in quella misura – con il consenso alle forze e ai personaggi antisistema
La contestazione di politica e partiti si esprime soprattutto con l’astensione, non più – non in quella misura – con il consenso alle forze e ai personaggi antisistema
Su questo giornale Fulvio Giuliani ha giustamente scritto che «c’è da aver paura» del fatto che in una regione di lunga tradizione democratica come l’Emilia-Romagna più di un elettore su due sia restato a casa. Questo è senz’altro il principale problema della democrazia italiana. Oggi la contestazione della politica e dei partiti si esprime infatti soprattutto con l’astensione, non più – almeno non in quella misura – con il consenso alle forze e ai personaggi antisistema.
Alle recentissime elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria, ma precedentemente anche in Liguria e persino a quelle europee dello scorso giugno, i due partiti con tratti marcatamente populisti – M5S e Lega – sono andati male. Questa volta molto male: anzi, sono gli unici che debbono registrare una sconfitta. Per ragioni diverse ma in parte anche simili, i loro leader Giuseppe Conte e Matteo Salvini appaiono in evidente affanno: il primo potrebbe addirittura mollare se la Convenzione dovesse andargli male (e in ogni caso non sembra più il Conte di qualche anno fa); il secondo è vero che non ha ufficialmente avversari però non può più pensare di essere il Capitano di una volta. Messo all’angolo da Giorgia Meloni e ormai regolarmente sorpassato da Forza Italia, il ministro dei Trasporti dovrebbe avere imboccato una parabola discendente.
Inoltre il più mattocchio di tutti, il sindaco di Terni Stefano Bandecchi, non è nemmeno riuscito a entrare nel Consiglio regionale dell’Umbria. Questi è un personaggio che ha fatto della volgarità e della violenza non solo verbale la sua cifra ‘politica’, il che era stato sufficiente ad abbindolare i ternani che lo elessero sindaco nell’illusione che con i suoi modi spicci, i suoi soldi e la sua carica antipolitica avrebbe potuto risolvere d’incanto i problemi di quella città; ma è bastato pochissimo tempo per rendersi conto che si tratta di un personaggio inaffidabile da evitare con cura. Malgrado egli insista con tutto il suo carico di grossolanità (sull’avversaria Stefania Proietti ha detto: «Se il candidato del centrodestra fossi stato io, lei stasera non avrebbe festeggiato niente, era a casa a lavare i piatti»), è chiaro che Bandecchi è un politico finito: nessun paragone in questo senso con Salvini e Conte.
E tuttavia, a scrutare la parabola del sindaco di Terni e la crisi dei giallo-verdi, si è autorizzati a pensare che sia possibile che la stagione del ribellismo populista vada sgonfiandosi. Manca la prova del nove, il declino di una figura come quella del generale Roberto Vannacci, che però – attenzione – incarna l’antico mito dell’uomo forte e può suonare il piffero dell’ordine e disciplina: una musica che a un pezzo d’Italia piace. Vedremo che fine farà. Ma oggi possiamo azzardare che forse – e sottolineiamo forse – la politica pur con tutti i suoi limiti si sta sbarazzando delle pulsioni populiste e a-democratiche. Dipende soltanto dai partiti, di governo e di opposizione, completare l’opera.
di Mario Lavia
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