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Meloni e Tavares

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L’approccio “muscolare” di Tavares, amministratore delegato di Stellantis, nei confronti del governo italiano e quella richiesta di denari pubblici da pompare nel gruppo
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L’approccio “muscolare” di Tavares, amministratore delegato di Stellantis, nei confronti del governo italiano e quella richiesta di denari pubblici da pompare nel gruppo
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L’approccio “muscolare” di Tavares, amministratore delegato di Stellantis, nei confronti del governo italiano e quella richiesta di denari pubblici da pompare nel gruppo
Carlos Tavares dev’essere uno di quegli amministratori delegati di grandi gruppi che ama percepirsi, più che come capitano d’industria, come uno che può dare del ‘tu’ a capi di Stato e di governo. Parlando con loro da pari a pari, prima ancora che con gli stessi stakeholder dell’azienda. Non può quindi sorprendere, avendo seguito lo storico delle sue dichiarazioni e del suo modo di porsi, l’approccio ‘muscolare’ nei confronti del governo italiano e la richiesta – a un passo dall’insolenza – di denari pubblici da pompare nel gruppo. Un’ipotesi, mascherata da battuta, che inevitabilmente è finita per riflettersi nei dubbi che si addensano un giorno sì e l’altro pure sul futuro degli stabilimenti italiani di Stellantis. A battuta si risponde con battuta e ha fatto bene il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a chiuderla lì («Vorrei tanto entrare nella Ferrari…»). La faccenda, però, di sicuro non finisce alle battute: il tema resta scottante, incandescente da un punto di vista politico, perché si può tramutare in qualsiasi momento in una vera tempesta mediatica a base di allarme occupazionale. A nessuno conviene e così si cerca di mettere la sordina allo scontro, peraltro seguito solo di pochi giorni alle polemiche sull’‘italianità’, che avevano visto scendere in campo la stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un botta e risposta a distanza con gli eredi di questa grande storia industriale. Querelle che piacciono tanto ai giornalisti, fanno audience e solleticano l’animo gossipparo del Paese. La vera partita è ovviamente un’altra: Carlos Tavares e l’intero top management di Stellantis dovrebbero far capire quale sia l’idea di futuro che hanno per il gruppo, presentare un piano industriale in grado di riportare l’azienda a recitare un ruolo da protagonista nel mondo. Perché – mentre ci perdiamo in dibattiti da XX secolo sull’ingresso dello Stato nel capitale – non ci sarà alcun futuro roseo per gli impianti italiani se l’azienda fa acqua, se il tema a oggi sembra essere salvaguardare l’industria dell’auto francese. Pur accettando di andare a costruire altrove, perché i nostri ‘cugini’ hanno un problema di costo del lavoro e di competitività esattamente come l’Italia. Questo andrebbe chiesto a Tavares e soci, senza offendersi, senza risentirsi e trattando il ceo di un’azienda privata per quello che è: un manager che verrà giudicato in base ai risultati e che mancandoli verrà sostituito, senza poter cercare improbabili salvagenti pubblici. Su quest’ultimo punto possiamo sbilanciarci: in Italia abbiamo già dato, non soltanto con la Fiat; la galleria di aiuti diretti e indiretti al colosso torinese è particolarmente ricca. Oggi più che mai la differenza la fanno ricerca e sviluppo, la capacità di interpretare il mercato. Caratteristiche che sono parte del Dna industriale del nostro Paese. Abbiamo una manodopera che ci invidia il mondo, ma per decenni abbiamo anche saputo innovare, sperimentare, proporre soluzioni che hanno fatto la storia dell’automotive e indirizzato lo sviluppo. Lo facciamo ancora oggi, in tante realtà dell’indotto che si confermano leader a livello internazionale. Non un’era geologica fa abbiamo avuto a Torino un grande esempio di managerialità, con il lavoro che Sergio Marchionne riuscì a portare avanti (non a termine, per la prematura scomparsa) rivoltando come un guanto l’azienda, sfruttando le circostanze. Anche le più sfavorevoli, come la grande crisi internazionale seguita ai fatti del 2008, rilevando Chrysler con la benedizione della Casa Bianca. In quel caso non mancarono certo appoggi politici (fondamentale l’apertura del ‘fallimento pilotato’ sotto la regia dell’amministrazione Usa, che spalancò le porte all’ingresso di Fiat), ma un mese dopo l’acquisizione venne presentato un piano industriale rivoluzionario per Chrysler e Fiat. Se pensiamo su cosa stiamo polemizzando oggi, c’è il rischio di essere assaliti dallo sconforto. Le grandi storie – e quella dell’automobile in Italia lo è ai massimi livelli mondiali – necessitano di grandi interpreti. Di Fulvio Giuliani

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