Giorgia Meloni e la sindrome dell’underdog (ma non solo)
Nel discorso per la fiducia Giorgia Meloni si definì un’underdog, ossia una persona che è stata tenuta ai margini e sottovalutata
Giorgia Meloni e la sindrome dell’underdog (ma non solo)
Nel discorso per la fiducia Giorgia Meloni si definì un’underdog, ossia una persona che è stata tenuta ai margini e sottovalutata
Giorgia Meloni e la sindrome dell’underdog (ma non solo)
Nel discorso per la fiducia Giorgia Meloni si definì un’underdog, ossia una persona che è stata tenuta ai margini e sottovalutata
Nel discorso per la fiducia Giorgia Meloni si definì un’underdog. Una persona che è stata tenuta ai margini e sottovalutata. Curioso, per chi è stato consigliere provinciale a 23 anni. Deputato e vice presidente della Camera a 29 anni. Ministro a 31 anni. E presidente del Consiglio a 45. Un anno dopo, alla presentazione delle Olimpiadi invernali, Meloni ha evocato la sindrome di Calimero. «Questa è una nazione in cui molti tendono a farsi sopraffare da una sorta di sindrome di Calimero. Per cui non siamo mai abbastanza, non lo sappiamo fare, non lo possiamo fare». La sindrome del vittimismo. Chi ne è affetto si ritiene tendenzialmente inadeguato a qualsivoglia impresa e sistematicamente vittima degli altri o degli eventi.
Pur essendo l’una il rovescio dell’altra, l’intera storia del governo Meloni oscilla tra un’autonarrazione in linea con la retorica dell’underdog e una in linea con la retorica di Calimero. Alla prima appartiene la decisione di disertare il vertice di Kiev con i leader di Francia, Regno Unito e Polonia. Degradando l’evento a una photo opportunity meritevole di un collegamento da remoto. Alla seconda appartengono le lamentele fatte filtrare da Palazzo Chigi e da Fratelli d’Italia. Per l’apparente esclusione del nostro Paese dal novero degli alleati ‘strategici’ della Germania.
C’è un fondo di verità in entrambe le narrazioni, ma soltanto un fondo. La verità profonda è che il summit ucraino ha avuto un forte valore simbolico. E Giorgia Meloni l’opportunità di quella foto avrebbe dovuto coglierla al volo. La verità è che, se Meloni si fosse conquistata sul campo la fiducia di Merz rispetto al riarmo e al ruolo dell’Ue in Ucraina, il nostro Paese non sarebbe stato espunto dalla lista tedesca dei partner strategici, per poi essere giocoforza rilegittimato dopo un intenso lavorio diplomatico e un faccia a faccia con il cancelliere tedesco.
Appare chiaro che, come lamentano al Quirinale, aver voluto prendere le distanze dal piano di riarmo europeo e dall’iniziativa dei Paesi “volenterosi” con l’argomento – pretestuoso – che l’Italia non intende inviare truppe in Ucraina se non dietro mandato Onu (dove però la Russia ha potere di veto), ci abbia penalizzato. Il resto ne consegue. Così come è conseguenza delle continue polemiche nei confronti di Macron lo scetticismo francese verso il Belpaese e chi oggi lo governa.
Il mondo e l’Ue si stanno avviando verso una fase nuova. Un nuovo inizio in cui a fare la differenza non sarà l’appartenenza complessiva all’Ue o alla Nato, ma la spinta propulsiva e creatrice dei singoli Stati. Pur essendo tra i fondatori dell’Ue, l’Italia è un Paese strutturalmente debole. E debole appare l’Ue a 27, incapace di riformarsi a causa del vincolo dell’unanimità. Gli assetti geopolitici ed economici futuri saranno decisi da iniziative nazionali inquadrate in una prospettiva comunitaria: se l’Italia vorrà essere nel gruppo di testa dovrà necessariamente incunearsi nell’asse franco-tedesco e approfittare dell’urgenza di una difesa europea per promuoverne la nascita. Se non lo farà, non basteranno ‘foto storiche’ scattate a margine di intronazioni papali per renderci concretamente diversi da quel che in effetti appariamo.
di Andrea Cangini
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