I malesseri della Lega dopo le elezioni regionali in Sardegna
Il tonfo della Lega alle elezioni regionali in Sardegna – con l’avvilente 3,7% – è tutto molto coerente con un partito che deve restituire (alla Meloni) un elettorato non suo
I malesseri della Lega dopo le elezioni regionali in Sardegna
Il tonfo della Lega alle elezioni regionali in Sardegna – con l’avvilente 3,7% – è tutto molto coerente con un partito che deve restituire (alla Meloni) un elettorato non suo
I malesseri della Lega dopo le elezioni regionali in Sardegna
Il tonfo della Lega alle elezioni regionali in Sardegna – con l’avvilente 3,7% – è tutto molto coerente con un partito che deve restituire (alla Meloni) un elettorato non suo
Il tonfo della Lega alle elezioni regionali in Sardegna – con l’avvilente 3,7% – è tutto molto coerente con un partito che deve restituire (alla Meloni) un elettorato non suo
«C’è qualche italiano, qui?» Così Umberto Bossi in un comizio dei primi anni Novanta nel Bresciano, cioè la futura roccaforte con la vicina Bergamasca di quella “La Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” frutto della federazione di sei movimenti regionalisti (Lega Lombarda, Liga Veneta, Piemont Autonomista, Union Ligure, Lega Emiliano-Romagnola e Alleanza Toscana). Presente a uno di quei comizi da infiltrato, fui travolto dai «No». Nemmeno un italiano. Tutti Lumbàrd (o, altrove, piemontesi, veneti et cetera). Con un linguaggio che mirava ai cuori padani, il senatùr riuscì nell’impresa di far crescere una creatura destinata a raccogliere le istanze regionalistiche – e spesso campanilistiche – di «popoli del Nord» che ponevano il Po come sbarramento rispetto al resto d’Italia. Non metaforico ma vero, come quello di Berlino.
Una crescita, quella leghista, che ricevette una spinta inattesa da Tangentopoli. L’inchiesta dei nuovi Savonarola della Procura di Milano demolì un’intera classe politica, lasciando nella piazza orfani di rappresentanza fra i detriti della Repubblica nata nella bella estate del 1946. D’un colpo, partiti che avevano origini risorgimentali diventarono luoghi del malaffare. Gli avvisi di garanzia, a grappolo. Come danni collaterali non pochi innocenti che, incapaci di reggerne l’urto, si sarebbero suicidati. Metodi da Torquemada, insomma. Da quel momento in poi, «Roma ladrona» avrebbe dovuto fare i conti con «il riscatto del Nord», fra lo stupore di un Sud che s’era evidentemente indebitamente appropriato a sua insaputa di qualcosa di non suo.
Gli anni successivi si sarebbero incaricati di spazzare via storie, storielle e dicerie da bar, per fare spazio alla Storia. Che adesso ha registrato il tonfo della Lega in Sardegna con l’avvilente 3,7%. Tutto molto coerente con un partito che deve restituire (alla Meloni) un elettorato non suo. Consensi raccolti con disinvolta pesca a strascico dalle Alpi alla Trinacria negli anni della segreteria di Salvini. Un corso politico che aveva visto la Lega abbandonare i panni originali per indossarne di non suoi. Il comiziante Bossi dell’epoca, oltre a chiedere se qualcuno si riconoscesse nell’italianità, invitava i suoi fedeli anche a cercare «uno per uno i fascisti». Non solo non avrebbe fatto fatica, come Salvini, a dichiararsi antifascista (a proposito, vergognose sono risposte tipo «Non m’interessa il derby fascisti-comunisti»), gridava pure che i fascisti erano «maledetti». La cavalcata a destra della Lega-Salvini, che raccattava voti perfino dalla paccottiglia di Fn e CasaPound, finisce in Sardegna.
Per evitare di perdere anche lo zoccolo duro del Nord, la Lega ha una sola strada: tornare al Monviso. Ovviamente con un nuovo segretario, alias il doge Zaia, e un logo ripulito dalla scritta “Salvini premier”. Con buona pace dell’ottimista Crippa («Le inchieste sul generale sono delle medaglie al petto»), il salvagente di Vannacci non basterà per evitare d’affogare in acque europee.
di Pino Casamassima
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