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Il gioco delle candidature

Il gioco delle candidature, dell’offrire e del darsi, può essere dilettevole, purché non diventi ingannevole. E lo è divenuto su due fronti: uno europeo e l’altro italiano

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Il gioco delle candidature

Il gioco delle candidature, dell’offrire e del darsi, può essere dilettevole, purché non diventi ingannevole. E lo è divenuto su due fronti: uno europeo e l’altro italiano

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Il gioco delle candidature

Il gioco delle candidature, dell’offrire e del darsi, può essere dilettevole, purché non diventi ingannevole. E lo è divenuto su due fronti: uno europeo e l’altro italiano

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Il gioco delle candidature, dell’offrire e del darsi, può essere dilettevole, purché non diventi ingannevole. E lo è divenuto su due fronti: uno europeo e l’altro italiano

Il gioco delle candidature, dell’offrire e del darsi, può essere dilettevole, purché non diventi ingannevole. E lo è divenuto su due fronti: uno europeo e l’altro italiano.

A Maastricht si è tenuto un primo dibattito fra gli spitzenkandidaten, ovvero i candidati dei diversi schieramenti alla presidenza della Commissione europea. Si chiamano così in tedesco e sono stati così denominati in tutta l’Unione europea, ma noi italiani potremmo pretendere che ci sia riconosciuta l’invenzione di tale raggiro, avendo da anni messo nei simboli elettorali “per Tizio o per Caia presidente”. Trattasi di raggiro, perché non si elegge il presidente del Consiglio in Italia e non si elegge il presidente della Commissione in Ue. Tanto più che l’attuale presidente, Ursula von der Leyen, non era fra gli spitzenkandidaten la volta scorsa.

L’inganno ha effetti turpi, perché se penso di eleggere chi guida il governo europeo poi non ha senso che un governante nazionale possa fermarlo o porre il veto, visto che la legittimazione democratica del primo è ben superiore a quella del secondo. Ma se si elegge direttamente qualcuno (vale anche per lo scombiccherato dibattito italiano sul presunto premierato) poi servono istituzioni coerenti con quella scelta. Nel caso europeo si dovrebbe sciogliere il Consiglio – ovvero la riunione dei capi di Stato e di governo (difatti sconosciuta negli Stati Uniti) – per poi poter disporre di una Camera con eletti in proporzione alla popolazione (ce l’abbiamo: è l’attuale Parlamento europeo) e di una Camera dove siano rappresentati gli Stati in modo paritario, come il Senato statunitense (che non abbiamo perché non avrebbe senso, non eleggendo noi il presidente).

Taluno avrà sentito parlare della possibilità che Mario Draghi diventi presidente della Commissione; ma come può esistere una simile ipotesi se il cittadino Draghi neanche si candida? Perché non è una carica elettiva a suffragio universale. Gli inganni non portano bene alla salute delle democrazie.

Veniamo al fronte nazionale. Il problema non è questo o quel candidato, perché se una qualsiasi candidatura è giuridicamente possibile è anche legittima. Chi ha diritto di candidarsi può ben farlo, tocca agli elettori giudicarlo. Il problema è l’inganno degli specchietti per gli elettori allodole. Tralasciamo il fatto che se si esagera con i “detto” o “detta” si finisce con l’usare il linguaggio della criminalità: “detto il libanese”, “detto scarpuzzedda”, “detto er boia” e via andando. Una cosa è che Tizio sia noto come Caio (Giacinto Pannella detto Marco), un’altra abusare di nomignoli e paraculate che degradano tutti.

C’è però un’altra questione che riguarda tutti e ha a che fare con la moralità politica, che attiene alla coerenza e alla trasparenza. Un partito può ben candidare chi non è iscritto al medesimo, ma lo fa perché ne condivide le idee. È il partito che si riconosce in quel che l’indipendente sostiene e, quindi, lo espone con orgoglio nelle proprie liste. Del resto, l’indipendente è tale perché non aderisce alla vita di partito, ma ritiene che sia un bene portare voti a posizioni che condivide e – se eletto – di poter fare un buon lavoro con quelle insegne. Se il partito lo candida perché popolare ma non ne condivide le idee, è un partito di demagoghi da quattro soldi. Se il candidato accetta di essere tale senza condividere le idee del partito, è un arrivista da due soldi. Se qualcuno nel partito dice che quello gli fa ribrezzo ma che vota un altro nella stessa lista, si qualifica come ipocrita.

Vale per le candidature di chi straparla di razze e diritti, per chi è contro l’invio di armi all’Ucraina e cerca voti per quelli che le approvano, come anche per quelli che detestano i magistrati che fanno politica e poi li candidano.

È così procedendo che la settimana scorsa i parlamentari europei italiani della maggioranza e del Pd si sono astenuti sul Patto di stabilità e lunedì il governo lo ha approvato all’unanimità. Una condotta che, più che essere ingannevole, è ridicola.

di Davide Giacalone

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