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Il nucleare civile

Questo giornale e il suo direttore si sono espressi a favore di un ritorno dell’Italia al nucleare civile. Una posizione difesa con coerenza e da me condivisa in linea di principio
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Questo giornale e il suo direttore si sono espressi a favore di un ritorno dell’Italia al nucleare civile. Una posizione difesa con coerenza e da me condivisa in linea di principio
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Questo giornale e il suo direttore si sono espressi a favore di un ritorno dell’Italia al nucleare civile. Una posizione difesa con coerenza e da me condivisa in linea di principio
Questo giornale e il suo direttore si sono espressi chiaramente a favore di un ritorno dell’Italia al nucleare civile. È una posizione difesa con coerenza da mezzo secolo e da me personalmente sempre condivisa in linea di principio. Le mie esperienze nella politica e nel settore dell’energia mi hanno tuttavia insegnato che le posizioni di principio che non riguardano l’etica ma l’economia sono utili soltanto se funzionano anche in pratica. Allo stato della tecnologia disponibile, produrre elettricità in centrali nucleari implica investimenti multimiliardari, il cui costo è quasi tutto sostenuto prima dell’entrata in esercizio dell’impianto e viene ammortizzato in un successivo periodo di almeno 35 anni, che vanno sommati ai 15 necessari per passare da una decisione di principio alla realizzazione dell’opera: mezzo secolo, in totale. Vi sono opinioni discordanti (e spesso faziose) sui costi comparati del nucleare e delle rinnovabili; dovendo qui restar sintetico e didascalico, non mi addentro ora in questo dibattito, riconoscendo che – se si tratta di una scelta strategica e vitale per il Paese – la questione del costo può anche essere lasciata in secondo piano. Ma resta il fatto che investimenti del genere possono essere sostenuti soltanto con il sostegno diretto o indiretto dello Stato, se non altro per il banale motivo che gli impianti nucleari non sono assicurabili privatamente. Un decennio fa Giulio Tremonti calcolò che il debito pubblico francese fuori bilancio era di almeno 200 miliardi di euro, corrispondenti ai costi di chiusura a fine vita delle centrali nucleari e dello stoccaggio delle scorie. Edf e Areva, senza il sostegno dello Stato francese, sarebbero fallite. Dopo Fukushima, Tokio Electric sarebbe fallita senza sostegno statale. Ora, decisioni di Stato che devono essere tenute ferme per almeno mezzo secolo e mettono a rischio una buona parte del bilancio pubblico, presuppongono un impegno politico molto solido e determinato. In Italia, nell’ultimo secolo, vi sono state due scelte importanti di lunga durata paragonabili: l’adesione alla Nato e la creazione dell’Unione europea. Non sono state inizialmente scelte bipartisan, ma lo sono divenute nel tempo in quanto strategiche per il Paese. Il paragonabile consenso che esisteva in tema di nucleare civile venne rotto dai socialisti di Craxi, con le conseguenze note. La questione politica attuale è dunque la seguente: le maggiori forze politiche presenti nel Parlamento italiano hanno la solidità, la coerenza e la forza per assumere decisioni politiche controverse la cui realizzazione implica un impegno semisecolare? Lascio la risposta a questa domanda retorica alla sagacia dei lettori e aggiungo che l’unico collante politico alternativo alla serietà dei partiti potrebbe essere un convinto sostegno dell’opinione pubblica, che esiste oggi ad esempio in Francia ma non in Germania. In mancanza, potrebbe aver più senso co-investire con Bill Gates nella ricerca e sviluppo di mini centrali nucleari, realizzabili in tempi rapidi e forse meglio compatibili con il profilo idrogeologico della penisola italiana.   di Ottavio Lavaggi

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