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Corte di cassazione

La Cassata, la Corte di cassazione e l’autonomia differenziata

La Corte di cassazione considera regolari le richieste dei due referendum abrogativi della legge sull’autonomia differenziata, ma ne ammette uno solo

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La Cassata, la Corte di cassazione e l’autonomia differenziata

La Corte di cassazione considera regolari le richieste dei due referendum abrogativi della legge sull’autonomia differenziata, ma ne ammette uno solo

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La Cassata, la Corte di cassazione e l’autonomia differenziata

La Corte di cassazione considera regolari le richieste dei due referendum abrogativi della legge sull’autonomia differenziata, ma ne ammette uno solo

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La Corte di cassazione considera regolari le richieste dei due referendum abrogativi della legge sull’autonomia differenziata, ma ne ammette uno solo

Il sospiro di sollievo governativo s’è soffocato e ora le cose si complicano. La Corte di cassazione considera regolari le richieste dei due referendum abrogativi della legge sull’autonomia differenziata, ma ne ammette uno solo dato che l’altro si riferiva a parti già cancellate dalla Corte costituzionale (e che richiedono un ulteriore intervento legislativo). Lo avevamo scritto: se il governo sostiene che la legge è vigente e integra, la richiesta di abrogazione resta in piedi e sfuma la speranza di sfangare un appuntamento referendario ad alto rischio di sconfitta. A gennaio toccherà alla Corte costituzionale pronunciarsi in via definitiva, ma la Corte è mutilata ora di un giudice e fra pochi giorni di quattro. Una roba oscena, la cui responsabilità ricade sul Parlamento e, quindi, sulle forze politiche.

Un giudice costituzionale manca da più di un anno e dallo stesso tempo il Parlamento non s’è dimostrato capace di sostituirlo. È appena il caso di ricordare che l’incapacità di adempiere ai doveri costituzionali – e questo certamente lo è – sarebbe una delle più solide cause di scioglimento anticipato della legislatura. Il Quirinale neanche ci pensa, ma il Colle s’è sgolato a dire che quel giudice andava eletto subito, senza che nessuno abbia ascoltato. Fra una settimana, il 21 dicembre, altri tre giudici lasceranno la Corte, giunti a fine mandato. Essendoci fra questi l’attuale presidente (e i due vice), l’elezione del suo successore è fissata per il 21 di gennaio quando, se non ci si decide a risolvere la delicata faccenda, i giudici saranno 11 anziché 15 e quasi azzerata la componente parlamentare, mancandone 4 su 5. Lunga vita ai giudici costituzionali, ma – considerato anche che non si tratta di giovincelli – basta che uno solo prenda l’influenza o non riesca a raggiungere la Consulta (pur in augurabile ottima salute) e i lavori saranno bloccati, in pieno infarto costituzionale.

Le coronarie, del resto, sono già sofferenti. In ogni singolo giudizio concorrono i giudici che hanno partecipato a tutte le udienze: uno manca da un anno e quelli in scadenza la settimana prossima hanno già da tempo smesso di partecipare a udienze relative a procedimenti che si chiuderanno in loro forzata assenza. Non fosse una situazione alquanto pasticciata, ora si aggiunge la necessità di pronunciarsi sulla legittimità del quesito ammesso dall’altra Corte. Pronuncia che non può tardare se non assestando mazzate micidiali all’edificio democratico.

Perché il Parlamento non provvede? Il problema non è tanto che manchi la maggioranza, che è previsto sia più ampia di quella che sostiene il governo, ma il perché è così lungamente mancata. Il quorum necessario a eleggere un giudice costituzionale è alto perché si vuole che si tratti di soggetti apprezzati da molti, non di una sola parte. Il tema non è se il nome è ‘mio’ o ‘tuo’, ma se ha la stoffa per potere essere apprezzato anche dagli avversari e la dirittura che assicuri la sua futura imparzialità. Da più di un anno non ne trovano uno con queste caratteristiche. Ed è grave. E puntare ad averne quattro, in modo da sostituire il compromesso con la spartizione, è una pessima idea e anche una peggiore condotta.

Le nomine parlamentari sono sempre politiche, ma ve ne sono che non devono essere faziose. Forze politiche che non riescono a costruire un compromesso sono forze che dimostrano di non avere rapporti di lealtà e di non disporre di una stanza in cui parlarsi e –pur mantenendo tutte le differenze – potersi fidare. Questa è l’orrida situazione che dalla particolare vicenda emerge. Non è sempre stato così ed è anche questo a raccontare la diversa stoffa del personale che calca la scena. Puntare ai giudici schierati e lamentarsi delle sentenze politiche è il segno della perdita di senno.

Ora la Corte di cassazione manda la palla nello sguarnito campo della Consulta. Ne esce una cassata barocca e scassata, che costringe gli organismi di garanzia a barcamenarsi fra mancanze politiche di garantita bassezza.

di Davide Giacalone

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