La politica italiana e il referendum della giustizia
Si tratta di una trappola mortale sia per la destra che per la sinistra, che rischia di inghiottire anche le toghe e il loro sindacato di riferimento, l’Anm. Il referendum della giustizia
La politica italiana e il referendum della giustizia
Si tratta di una trappola mortale sia per la destra che per la sinistra, che rischia di inghiottire anche le toghe e il loro sindacato di riferimento, l’Anm. Il referendum della giustizia
La politica italiana e il referendum della giustizia
Si tratta di una trappola mortale sia per la destra che per la sinistra, che rischia di inghiottire anche le toghe e il loro sindacato di riferimento, l’Anm. Il referendum della giustizia
C’è un buco nero che si avvicina a grandi passi sulla scena politica italiana e che minaccia di inghiottire vincitori e vinti senza distinzioni. Con il mefitico risultato di devastare uno dei pilastri del sistema democratico: la distinzione dei poteri fra legislativo e giudiziario. Il riferimento è ovvio e riguarda la legge costituzionale per la separazione delle carriere tra pm e giudici che oggi il Senato, concludendo il percorso stabilito dall’articolo 138 della Carta, voterà in via definitiva. Poiché appunto è una modifica alla Costituzione e, visto che non sarà votata dai due terzi dei parlamentari, ci sarà un referendum confermativo da tenersi nella prossima primavera. Referendum senza quorum: non c’è astensionismo che tenga, vince chi porta più cittadini alle urne.
Una trappola mortale sia per la destra che per la sinistra
Si tratta di una trappola mortale sia per la destra che per la sinistra, che rischia di inghiottire anche le toghe e il loro sindacato di riferimento, l’Anm. Consapevoli dei problemi, i due schieramenti per ora spargono cautela tentando di sminare il campo e inalberando un atteggiamento se non proprio dialogante almeno non barricadero. Intento lodevole, perfino obbligato. E tuttavia destinato inevitabilmente a evaporare per lasciare spazio all’ordalia, a una guerra di religione fra opposti radicalismi cui purtroppo siamo abituati da tempo.
Il referendum della giustizia, fra governo e opposizione
Vediamo. La riforma della giustizia – che poi tanto riforma non è perché quella vera sarebbe la diminuzione dei tempi dei processi, oggi insopportabili – è il cavallo di battaglia di Giorgia Meloni: l’unico rimasto, visto che premierato e autonomia differenziata si sono rivelati della stessa materia dei sogni. Per vincere la partita e dunque presentarsi agli elettori alle prossime consultazioni politiche (a scadenza o anticipate) con un bottino importante, è necessario che gli aficionados del destra-centro si rechino in massa ai seggi considerato che, come detto, non c’è quorum.
Il modo migliore (in realtà l’unico) che la presidente del Consiglio ha per ottenere il risultato è personalizzare la battaglia trasformandola in un plebiscito su sé stessa. Ben sapendo che se l’operazione riuscisse e i Sì vincessero, per lei ogni successivo traguardo – Colle compreso – diventerebbe possibile. Peccato però che i precedenti sono infausti e più Meloni e la sua maggioranza personalizzano il referendum, più i rischi di coalizzare tutto intero il fronte avversario e dunque perdere si fanno concreti. Renzi docet. Non a caso cominciano a divampare falò di fuoco amico, accesi da insospettabili come il presidente del Senato («La separazione? Forse non valeva la pena farla…») e altri ai quali uno sgambetto alla Superwoman di Palazzo Chigi non dispiacerebbe. E allora?
Referendum della giustizia, stessa situazione sia a destra che a sinistra
Stessa situazione a sinistra, dove per vincere bisogna mobilitare i propri elettori e il propellente più adeguato è infilare Giorgia nel mirino. Ma anche qui. Se si punta a sminare il campo, il pericolo è che poi la Meloni prevalga e a quel punto addio sogni di gloria. Se però si alza il livello dello scontro, da un lato il Pd si schiaccia ancor più masochisticamente su Conte e Avs e soprattutto sull’Anm (di cui diventerebbe poco più di una protesi); dall’altro produce uno strappo interno di non trascurabile portata, visto che i riformisti di Morando, Picierno, Ceccanti, Sensi et cetera hanno fatto sapere – e lo ribadiscono senza tema – che voteranno a favore della riforma.
Questo perché, a voler essere intellettualmente onesti, la separazione delle carriere è più un tema di sinistra che di destra, al punto che era inserita nelle piattaforme politiche dell’Ulivo e dintorni e che faceva parte del programma politico dell’allora segretario Maurizio Martina (ma non solo). Insomma, altro che eventuale vittoria di Pirro: per il Pd risulterebbe al pari di una bomba sganciata sul quartier generale, capace di produrre cumuli di macerie.
Per alcuni questi ragionamenti sono poco più che rimasticature di politichese. E allora si può affrontare la questione rovesciandola. Se i magistrati fanno campagna elettorale e se un pezzo del sistema politico si mette sullo stesso terreno, è l’impianto di sistema democratico che viene terremotato. A chi giovi è difficile capirlo.
di Carlo Fusi
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