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Carta cambia

L’Italia è una repubblica (semi)presidenziale avendo adottato il modello francese. Resta un presidente del Consiglio ma il capo dello Stato assomma in sé anche le funzioni di capo del governo
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L’Italia è una repubblica (semi)presidenziale avendo adottato il modello francese. Resta un presidente del Consiglio ma il capo dello Stato assomma in sé anche le funzioni di capo del governo
Ok, finalmente ci siamo. L’Italia è una repubblica (semi)presidenziale avendo adottato il modello francese. Resta un presidente del Consiglio ma il capo dello Stato assomma in sé anche le funzioni di capo del governo. Per chi siede al Quirinale, la capacità decisionale è accresciuta fortemente. Un attimo: che succede? Capita che i presidenti dei due Paesi litighino. Per esempio sull’immigrazione: beh, come se ne esce, chi media? Il copione si è già avverato nella polemica tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. In quel caso è intervenuto Sergio Mattarella che nella nostra Costituzione ha funzioni di garanzia, arbitrali. Ma se il Colle da garante diventa espressione di parte, stiamo meglio o peggio? Di cosa abbiamo più bisogno, di decisionismo o di garanzia? Rispondere tutti e due non vale. Dovrebbe sciogliere il dilemma l’inquilina di Palazzo Chigi, che in ogni occasione pubblica di confronto con i media ripete due concetti: che non è ossessionata dalla ricandidatura nel 2027; che è determinata a portare a casa la riforma presidenziale. Nessuno dà credito al primo, meno ancora al secondo, propaganda a parte, ovviamente. Mettiamo in chiaro un aspetto, decisivo. Adottare il sistema francese non vuol dire solo chiamare gli italiani a scegliersi col proprio voto il presidente. Vuol dire rovesciare come un calzino il sistema costituzionale e ordinamentale vergato dai padri costituenti, demolirlo e ricostruirlo daccapo. Significa costituzionalizzare il doppio turno e gli apparentamenti. Significa azzerare il bicameralismo ed eleggere, come appunto accade in Francia, un’Assemblea nazionale che non si chiama Parlamento (e una ragione c’è). Vuol dire rivoluzionare il sistema giudiziario con il pm sottoposto all’autorità politica: altro che separazione delle carriere. Significa – ed è questo il punto più delicato – cambiare totalmente faccia e poteri del capo dello Stato, facendolo diventare “di parte”: quella elettoralmente vincente, è ovvio. Il che comporta stabilire tutta una serie di pesi e contrappesi per mettere in equilibrio il sistema così mutato: non un cambiamento bensì una vera e propria trasfigurazione. Significa spiegar che chi sostiene che un presidente eletto si accompagna facilmente a una riforma delle autonomie dispensa bubbole, fuorvianti e pericolose. Bene. Al dunque: si può fare? Certo che si può. A patto di sapere che si cammina sul filo del rasoio e di avere ben in mente i rischi oltre che le opportunità di una revisione così strutturale della forma di Stato. Può riuscire Meloni in un simile disegno, diventare in qualche mondo la De Gaulle italiana? A parte che il generale vinse la guerra e fu un baluardo antifascista, nelle attuali condizioni la risposta non potrebbe che essere negativa. I precedenti, da Berlusconi a Renzi, non depongono a favore di un rimaneggiamento così complessivo e anche l’omaggio ai 75 anni della Costituzione reso da Mattarella nel discorso di fine anno lascia intendere che si tratterebbe di un percorso minato. Sul perché dunque la presidente del Consiglio si ostini in un progetto che appare più un azzardo propagandistico che una scommessa riformista, le valutazioni si sprecano. Ma contano fino a un certo punto. Casomai stupisce (e per molti versi inquieta) il fatto che una materia di tale rilevanza e complessità venga evocata con tanta disinvoltura. Il presidenzialismo non è una brutta parola, dice Massimo Cacciari. Vero. Ma se non è riempita di contenuti è una parola vuota. La riforma dello Stato è roba handle with care, da maneggiare con cura. Gli apprendisti stregoni possono produrre guasti epocali. Di Carlo Fusi

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