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Presìdi, la stabilità della precarietà italiana

Gli insegnanti cambiano nel corso dell’anno scolastico – al più l’anno successivo – e ad andare a farsi benedire non è solo la “continuità didattica”

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Presìdi, la stabilità della precarietà italiana

Gli insegnanti cambiano nel corso dell’anno scolastico – al più l’anno successivo – e ad andare a farsi benedire non è solo la “continuità didattica”

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Presìdi, la stabilità della precarietà italiana

Gli insegnanti cambiano nel corso dell’anno scolastico – al più l’anno successivo – e ad andare a farsi benedire non è solo la “continuità didattica”

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Gli insegnanti cambiano nel corso dell’anno scolastico – al più l’anno successivo – e ad andare a farsi benedire non è solo la “continuità didattica”

Fornire istruzione di qualità non è solo un ottimo investimento per il futuro del Paese, ma anche quel che è doveroso offrire a ragazzi che si affacciano su una vita collettiva che le precedenti generazioni hanno coperto di debiti e nella quale continuano a pretendere di lavorare il meno possibile ed essere mantenute il più a lungo impossibile. Eppure quelli che dovrebbero essere i presìdi della formazione sono al momento sguarniti di insegnanti e di prèsidi.

Che le scuole inizino a settembre – dopo la troppo lunga pausa estiva, durante la quale le scuole sono rimaste chiuse – non si può dire sia una inattesa novità, talché è obbligatorio capire come si faccia ogni anno a trovarsi sempre nella stessa condizione. Anzi peggiorando nel tempo, perché quest’anno gli insegnanti supplenti saranno quasi il doppio rispetto al 2017, il 72% in più rispetto al recente passato. Ogni governo (da che ne ho memoria, ovvero da quando andavo a scuola) reclama che le responsabilità sono di quelli che c’erano prima e annuncia un imminente futuro radioso. Ed è così che mi sono fatto un’idea di quanto sia stabile la precarietà italiana, dato che quelli di adesso sono esattamente quelli che venivano prima di quelli di prima, i quali sono, con ogni probabilità, quelli che verranno dopo quelli di adesso.

Il danno dato dall’andazzo è evidente: gli insegnanti cambiano nel corso dell’anno scolastico, al più l’anno successivo, quindi non soltanto la ‘continuità didattica’ ma anche la passione di ciascuno, il conoscersi e il comprendersi – quindi il collaborare – va a farsi benedire. Una macchina diabolica che moltiplica l’ignoranza a dispetto della stessa buona volontà. Del resto: ogni anno vanno in pensione fra i 35 e i 40mila insegnanti, sicché si sommano quei vuoti a quelli dell’anno precedente e se non si fa la cosa più banale del mondo – ovvero programmare i posti da mettersi a concorso e i tempi in cui ci sarà bisogno di quelle persone – in classe finiranno quelli che non ci dovrebbero stare. Con grave danno per i ragazzi e per la collettività. A questo si aggiungono la denatalità e l’accorpamento delle classi, che a naso dovrebbe aiutare a risolvere il problema e invece aiuta a perdere gli insegnanti anche quando sono di ruolo, perché destinati ad altra classe.

Quando un insegnante non c’è si cerca il supplente. Quando manca di matematica o di materie scientifiche o di informatica si cerca anche uno non qualificato, tanto l’altro non si trova. Quando manca un dirigente scolastico – i prèsidi – si procede con una reggenza, vale a dire che dirige quello di un’altra scuola. Si può immaginare come. Il concorso per assumerne dei nuovi si fece nel 2017, con risultati inceppati dai ricorsi. Nel 2023 se ne fa un altro, con riserva per quelli che la volta prima avevano superato almeno un prova (veniamoci incontro, che le vie dell’ignoranza sono infinite), ma anche questo s’inceppa nei ricorsi. Ora il Ministero del Merito (quale?) fa sapere che niente paura: saranno assunti lo stesso, ma non in tempo per questo anno scolastico. Speriamo ci riescano prima che maturino la pensione. In ogni caso c’è un dettaglio: con tutto il rispetto per questi bravi lavoratori, l’interesse più importante è quello degli studenti ovvero il futuro loro e nostro. E il fallimento è evidente.

Voi dite che lo fanno apposta? Io dico che non lo sanno fare. Non è questione di destra o sinistra, ma di un meccanismo marcio che suggerisce ai ragazzi di diventare amministrativisti e passare il resto della vita al Tar. È lì che il legislatore deve mettere mano: al diritto amministrativo. E gli servono burocrati in grado di programmare, non solo di compitare circolari e direttive in assai equivoco italiano. La politica c’entra perché questo dovrebbe essere un lavoro comune, dividendosi su alcuni princìpi. Se li trovano. Invece andiamo avanti così, manifestando infantile stupore per il sopraggiungere di settembre dopo agosto e ringhiando contro l’altrui incapacità di fare quello che si era stati incapaci di fare.

di Davide Giacalone

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