I partiti si sono scelti il ruolo dei frenatori, a turno su diversi aspetti, senza riuscire a fermare l’esecuzione del necessario a dispetto del conveniente.
Il governo procede sulla rotta tracciata, senza trionfalismi e senza digressioni. I partiti si sono scelti il mesto ruolo dei frenatori, a turno su differenti aspetti, senza nessuno riuscire a fermare l’esecuzione del necessario a dispetto del conveniente. La tattica utilizzata oramai è nota: se qualcuno si oppone a qualche cosa ci si sofferma a discuterne, si dimostra quanto stia sbagliando, lo si lascia godersi le ore o i giorni di dichiarazioni tonitruanti e poi si riprende a procedere nella direzione precedentemente annunciata e inutilmente contestata.
Il presidente del Consiglio può permetterselo perché i frenatori non hanno alternative. Più ancora perché trae forza da un consenso basato sui fatti. Significativa la citazione einaudiana, fatta da Mario Draghi, quando ha ricordato che la ricchezza non la crea il governo, il cui compito è facilitare la vita e il lavoro a chi produce, cercando di rendere stabile e affidabile la crescita. Luigi Einaudi aveva scritto: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di denaro».
Un’affidabilità dei cittadini che non si vede solo nel campo economico, perché nonostante la canea animata sulla pandemia e sui vaccini, la fiera del virologo e il festival della superstizione – complice un mondo dell’informazione che aspira a essere spettacolo – la stragrande maggioranza dei vaccinabili ci siamo messi in fila e abbiamo fatto quel che era razionale e ragionevole. Perché, allora, questa imponente dimostrazione di responsabilità sembra essere ignorata nella vita politica?
Il che, inutile farsi illusioni, indebolisce anche l’efficacia dell’azione di governo, perché in democrazia non si può a lungo far divorziare il potere dal consenso. Capita perché si è costruito un inferno in cui i riformisti ragionevoli sono la maggioranza, ma essendosi voluti dividere verticalmente sono finiti sotto il ricatto degli estremisti irragionevoli presenti nei due schieramenti. Il fatto che, a destra come a sinistra, s’insist nel sostenere che il proprio polo sia unito, a dispetto dell’evidenza e sfidando il ridicolo, protrae la condanna all’irrilevanza dei ragionevoli.
Vittime del loro chinare la testa a un meccanismo che li cancella. A destra possono pure dire, taluni, che non si faranno mai dominare dai sovranisti, però non solo i secondi prendono più voti, oggi, ma li dominavano anche quando ne prendevano meno e manco pensavano d’essere sovranisti.
A sinistra possono pure dire d’essere i più a modino e avversari del populismo, ma per far dimenticare d’essere alleati del prodotto più populista in circolazione gli tocca incaponirsi su slogan e non entrare nel merito, finendo con il vedersi bocciare norme che sarebbero potute trionfalmente passare, se solo se ne fosse discusso.
Negli affari contano i soldi e in politica contano i voti. Puoi pure essere un affidabile moderato, ma se ti eleggono con i voti no euro o con quelli dei vaffa gialli non c’è verso: più che il furbo scalatore sei l’idiota copritore. I voti si prendono convincendo. Una minoranza non è una minorità, ma una forza che deve indurre gli elettori a condividerne le ragioni. I voti presi a rimorchio non generano politica, ma trasformismo.
Basta alzare gli occhi per vederne il risultato. Da una parte c’è la legge di bilancio, dall’altra gli sbilanciati che plaudono senza saperla e poterla riscrivere. L’occasione per rimediare c’è: il Colle. Con la Repubblica e la Costituzione il primo inquilino fu monarchico (come il predecessore provvisorio), figlio di una cultura di minoranza.
Scelta politicamente saggia, rafforzante il governo e unificante il Paese. Difese la Repubblica con tutte le sue forze. Ci pensino, i ragionevoli che abitano le diverse forze politiche, anche perché a non essere capaci di perseguire il comune interesse si finisce con l’essere coperti dal generale disinteresse.
di Davide Giacalone
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