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Sindacare

La rappresentanza dei sindacati italiani è in crisi, gran parte dei lavoratori ormai non si iscrive più. Oggi la maggior parte di loro, infatti, combatte in solitudine i propri diritti. E l’elenco degli errori con cui i sindacati nostrani dovrebbero fare i conti è lunghissimo.
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La rappresentanza dei sindacati italiani è in crisi, gran parte dei lavoratori ormai non si iscrive più. Oggi la maggior parte di loro, infatti, combatte in solitudine i propri diritti. E l’elenco degli errori con cui i sindacati nostrani dovrebbero fare i conti è lunghissimo.
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La rappresentanza dei sindacati italiani è in crisi, gran parte dei lavoratori ormai non si iscrive più. Oggi la maggior parte di loro, infatti, combatte in solitudine i propri diritti. E l’elenco degli errori con cui i sindacati nostrani dovrebbero fare i conti è lunghissimo.
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La rappresentanza dei sindacati italiani è in crisi, gran parte dei lavoratori ormai non si iscrive più. Oggi la maggior parte di loro, infatti, combatte in solitudine i propri diritti. E l’elenco degli errori con cui i sindacati nostrani dovrebbero fare i conti è lunghissimo.
Roba da pensionati. Chiunque in Italia provi, da anni, a ragionare sulla crisi di rappresentanza dei sindacati italiani, si becca l’accusa di crumiro o peggio. Accade quando un potere consolidato – e i sindacati lo sono – viene messo davanti allo specchio dei propri fallimenti. Da tempo gli interessi dei lavoratori italiani e quelli del sindacato si sono divaricati. Al secondo è rimasta soprattutto una pletora di pensionati e di garantiti, mentre l’occupazione è andata altrove. Gran parte dei lavoratori non si iscrive più ai sindacati, avvezzi ormai a combattere da soli per i propri diritti. Eppure, nonostante questa tragica crisi di rappresentanza, ogni anno, alla presentazione della manovra finanziaria da parte del governo, zac, ecco che i sindacalisti dicono la loro, con la pretesa di spiegare alla politica e ai lavoratori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Questo accade perché, senza questo ‘ruolo’ politico che da anni si è dato, il sindacato – avendo sempre meno lavoratori iscritti – oggi nei fatti non conterebbe più nulla o quasi. Pure quest’anno, ovviamente, la solfa è stata la stessa. Mario Draghi e il governo hanno presentato la loro proposta di revisione delle aliquote sull’imposizione fiscale e puntuali, come le zanzare d’estate, sono arrivati i rilievi sindacali. Va da sé che l’obiezione mossa, quando si parla di tasse, sia sempre la stessa, in puro sindacalese: i ricchi ci guadagnano più dei poveri. Con questa linea i leader di Cgil, Cisl e Uil – Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri – hanno mandato il loro segnale politico a Mario Draghi e al suo esecutivo. Mai obiezione fu più a vanvera. E non ci voleva neppure molto per capirlo. Se il grosso dei soldi per diminuire le imposte va ai redditi sotto i 50mila euro, bastava che i leader sindacali si ponessero una domanda: ma chi diavolo saranno in Italia le persone che hanno redditi sotto i 50mila euro? Ebbene, trattasi in grandissima parte di pensionati e di lavoratori dipendenti. Quando si dice la fortuna. Non se ne sono accorti neppure i sindacalisti ma si son ritrovati con una manovra che porterà benefici a chi ancora si iscrive alle loro organizzazioni. Ma in fondo, forse, era proprio questo il loro desiderio per poter continuare a rivendicare un ruolo politico attivo. E chissenefrega delle partite Iva, molte di queste saltate o in gravi difficoltà dopo due anni di pandemia, e di tutti gli altri lavori e lavoratori (mica sono iscritti!) anche se incarnano la maggior parte della forza produttiva oggi in Italia, quella senza rappresentanza. Il fatto è che l’elenco degli errori con cui i sindacati nostrani dovrebbero fare i conti è lunghissimo: aver lasciato scoperti per anni e anni migliaia di lavoratori precari. Essersi dimenticati dei giovani. Aver continuato a credere in un modello concertativo, nato negli anni Novanta e superato dalla storia. Essersi intestarditi nel continuare a seguire una logica di mera rivendicazione, senza guardarsi attorno, magari fuori dall’Italia dove i loro colleghi cercavano di cambiare, per restare al passo con i tempi. In Germania, ad esempio, i sindacati hanno salvato l’industria dell’auto (diventandone azionisti). L’elenco potrebbe continuare ma ci fermiamo qui. Quel che servirebbe oggi all’Italia, infatti, non è un elenco Leporello di dove abbiano sbagliato per anni e anni i sindacalisti e i sindacati del nostro Paese. Ma un cambiamento. Che cambino, abbandonando una volta per tutte – in nome della realtà – quella retorica lamentosa e rivendicativa. C’è stato un tempo, negli anni della Ricostruzione, in cui questo è accaduto e i sindacati hanno avuto un ruolo importante nella crescita del Paese. Anche oggi c’è da ricostruire ed è importante che il fattore produttivo del lavoro sia adeguatamente rappresentato. Speriamo se ne accorgano. di Massimiliano Lenzi  

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