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Uscite

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Il tema politico di un conflitto armato è immaginarne la conclusione e l’uscita. È in questo devono esercitarsi la politica e la diplomazia

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Il tema politico di un conflitto armato è immaginarne la conclusione e l’uscita. È in questo devono esercitarsi la politica e la diplomazia

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Il tema politico di un conflitto armato è immaginarne la conclusione e l’uscita. È in questo devono esercitarsi la politica e la diplomazia

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Sarebbe bello un mondo senza guerre. Anche senza violenza e senza cattiveria, ma la realtà è diversa ed è con la realtà che si devono fare i conti. Il tema politico di un conflitto armato è immaginarne il punto di caduta, la conclusione, l’uscita. È in quello che devono esercitarsi la politica e la diplomazia, non nelle predicazioni.

Sostenere che tutte le guerre siano uguali e uguali tutti i combattenti è una sciocchezza. Tutte sono atroci, ma in tutte esistono torti e ragioni. Che non stanno sullo stesso piano. Supporlo non è equanime pacifismo ma vile fuga dalla responsabilità e dal dovere di difendere la libertà e la sicurezza. Chiunque lo dimentichi manifestando, quale che sia il suo colore o multicolore, è uno scolorito prodotto dell’egoistica e impossibile difesa del proprio privilegio di vivere senza dovere combattere.

L’obbligo dell’approccio politico e non ipocritamente moralistico porta a valutare con apprezzamento la condotta degli europei, che in questo tempo dimostrano maggiore senso di responsabilità. Di conflitti armati ce ne sono molti, in giro per il mondo, e troppi si travestono con motivazioni non mediabili, come quelli religiosi o etnici. Hanno riempito la storia, dimostrandosi puntualmente mendaci. Ma prendiamo i tre conflitti con cui siamo alle prese e ragioniamo sulle possibili uscite.

Quando Putin ha aggredito l’Ucraina la sua ipotesi d’uscita era chiara: impossessarsene con le armi, in modo da dimostrare al resto di quello che fu l’impero sovietico (già impero zarista) che sarebbe stato meglio cedere senza inutilmente combattere. Le cose sono andate diversamente e Putin è il perdente, fin dall’inizio: l’aggressione è ancora in corso, ma è fallimentare. Ha costruito attorno a sé la coalizione delle carogne e ha trovato nella Cina la sponda che da una parte lo sostiene e dall’altra lo risucchia. Le democrazie occidentali sostengono l’Ucraina perché è stata aggredita e perché hanno colto il senso dell’aggressione alla loro stessa sicurezza. La via d’uscita può essere negoziata, ma per farlo occorre colpire l’aggressore e rendergli impossibile la guerra, altrimenti senza fine. Le sanzioni funzionano e funzionerebbero meglio se fossero più forti. Anche la sola ipotesi di vittoria russa non è accettabile, perché non cancellerebbe la guerra ma la sposterebbe a Occidente. Noi mandiamo aiuti, ma gli ucraini versano il sangue in una guerra che ci riguarda.

Israele è l’aggredito. Dal 1948 subisce aggressioni. La responsabilità della guerra è di Hamas. La reazione israeliana è legittima. Ma non se ne vede l’uscita. Se l’obiettivo è cancellare Hamas e ogni altra organizzazione terroristica anti israeliana, le bombe non otterranno quel risultato. Serve strozzare gli appoggi che i terroristi hanno (in primis dall’Iran) e serve far uscire i Paesi arabi dall’ipocrisia di chi non ha nulla da eccepire alla distruzione di Hezbollah e Hamas, ma spera che sia il cielo a separare la loro sorte da quella del popolo palestinese. L’uscita sta lì.

Colpire l’Iran nucleare è giusto. Israele ha agito agevolando tutti noi. Non ha alcuna importanza sapere se alla bomba atomica sarebbero arrivati fra un mese, un anno o un secolo: serve sapere che non devono mai neanche pensarci. Il conflitto ha quello scopo e deve concludersi assicurandolo. Non è connesso allo scopo far cadere i macellai teocrati, perché a quello si deve lavorare con gli iraniani, badando a non creare un’altra Libia.

Gli europei sono su quel crinale, mentre gli americani sbandano altrove. La postura di chi chiede atti dimostrativi è impolitica. Molti presunti pacifisti sono dei guerrafondai che stanno dall’altra parte. Le stesse agenzie Onu non sono concepite per azioni assertive, ma semmai dialogiche. La follia consiste nel negare le molte conquiste della giustizia internazionale e al tempo stesso chiedere che giustizia sia fatta subito.

Le uscite ci sono, ma chiedono impegno e non disimpegno, coinvolgimento e non fuga. Altrimenti continueranno a parlare soltanto le armi.

Di Davide Giacalone

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