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DigItalia, entusiasmi a parole

Da anni si parla di digitalizzare il Paese, mentre cresce la sfiducia nelle amministrazioni pubbliche per l’inefficienza dei servizi
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Da anni si parla di digitalizzare il Paese, mentre cresce la sfiducia nelle amministrazioni pubbliche per l’inefficienza dei servizi
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Da anni si parla di digitalizzare il Paese, mentre cresce la sfiducia nelle amministrazioni pubbliche per l’inefficienza dei servizi
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Da anni si parla di digitalizzare il Paese, mentre cresce la sfiducia nelle amministrazioni pubbliche per l’inefficienza dei servizi
È singolare il rapporto dell’Italia con il digitale. A parole, forse faremmo meglio a scrivere “a chiacchiere”, siamo tutti entusiasti. Da anni non c’è partito, leader, sindaco, presidente, amministratore di condominio che non si riempia la bocca di roboanti impegni per rendere iperconnesso, snello (stavamo per scrivere “fluido”, ma non è il caso), in una parola “digitale” il nostro Paese. Peccato che la distanza fra impegni e realtà sia spesso quella che c’è fra un telefonino di vent’anni fa e uno smartphone. Gli esempi sono innumerevoli e alcuni assurgono ormai a pura mitologia popolare, come la diffusa sfiducia nella capacità delle amministrazioni pubbliche di qualsiasi colore di rendere efficienti e digitali, appunto, i servizi al cittadino. Una sfiducia che finisce per coinvolgere anche gli esempi assolutamente lusinghieri, che pure non mancano di certo. Questo è uno degli effetti perversi di quella ridondanza di parole, destinata a schiantarsi sulla pochezza di effetti reali da cui siamo partiti nel nostro ragionamento. Lo Spid, l’identità digitale, ne è un esempio meraviglioso. Meraviglioso si fa per dire, ovviamente. È probabile che vi dovremo dire addio, dopo esserci appena e felicemente abituati a farne uso. Forse anche no o chissà, di certo le nebbie lo avvolgono, proprio ora che per una moltitudine di italiani era diventato un affidabile e familiare sistema per affrontare e risolvere in sicurezza e rapidamente un bel po’ di incombenze burocratiche. Dovremmo migrare tutti – chissà quando, chissà come – alla Carta d’identità elettronica (Cie). Tutto questo, spiegano in ambienti del governo, per motivi di cura e sicurezza complessiva dei nostri dati e per semplificare il rapporto fra pubblico e fornitori spuntati come funghi nella gestione dello Spid. Peccato che questi ultimi abbiano investito cospicue risorse economiche e professionali per mettere a punto un servizio di alta qualità e che proprio la concorrenza fra di loro abbia certamente garantito via via una sempre maggiore efficienza e, a tendere, una riduzione dei costi per il cittadino. Che lo Stato ora dica «Scusate, abbiamo cambiato idea» ha dei tratti oggettivamente spiacevoli. Non vogliamo certo sostenere che il sistema oggi come oggi sia perfetto o che l’approccio allo Spid – in particolare nei primi utilizzi e per le differenze fra i diversi gestori – non sia privo di criticità. Sbaraccare tutto, però, ci appare comunque un peccato e un azzardo, a meno che non si migri con velocità straordinaria ed efficienza mai vista verso la Cie. Cosa su cui ci permettiamo di nutrire qualche dubbio, considerato che per tantissimi italiani anche solo ottenere la Carta d’identità elettronica significa attendere mesi (mentre dei passaporti non parliamo per carità di patria). Si torna così alla casella di partenza di questo gioco dell’oca molto analogico e ben poco digitale: al Paese che procede a scatti, alle amministrazioni che non si “parlano”, figurarsi le banche dati. Lo Spid, da utilissimo esempio di efficienza digitale, rischia di trasformarsi in ennesimo caso utile ad alimentare l’italica tendenza a dar ragione al grande Gino Bartali, quando andava ripetendo: «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!». Il che non è vero, ma suona facile e garantisce l’applauso del pubblico al bar. Di Fulvio Giuliani

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