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Meloni è femmina ma non femminista

Da quando ha vinto, le donne di sinistra dicono di Giorgia Meloni: “è donna, ma non è femminista”. Ma cosa significa davvero essere femministe?
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Meloni è femmina ma non femminista

Da quando ha vinto, le donne di sinistra dicono di Giorgia Meloni: “è donna, ma non è femminista”. Ma cosa significa davvero essere femministe?
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Meloni è femmina ma non femminista

Da quando ha vinto, le donne di sinistra dicono di Giorgia Meloni: “è donna, ma non è femminista”. Ma cosa significa davvero essere femministe?
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Da quando ha vinto, le donne di sinistra dicono di Giorgia Meloni: “è donna, ma non è femminista”. Ma cosa significa davvero essere femministe?
Da quando Giorgia Meloni ha vinto le elezioni ed è diventata presidente del Consiglio, la linea Maginot delle donne di sinistra è stata: ok, ammettiamolo, è importante che una donna ce l’abbia fatta, ma Giorgia Meloni non è femminista e quindi non rappresenta i veri interessi delle donne. Ma quali sono i veri interessi delle donne? La cosa interessante di questa argomentazione è la logica con cui è costruita. Una logica che si riallaccia a una lunga tradizione di filosofi – quasi tutti maschi – che dalla metà dell’Ottocento a oggi hanno teorizzato la non genuinità delle preferenze, dei desideri e dei bisogni individuali. E da tale non genuinità hanno dedotto la necessità di sostituire tali preferenze, desideri e bisogni – falsi, alienati, distorti, manipolati – con una teoria dei veri interessi di operai, oppressi, donne, consumatori et cetera. Il via lo dà Marx con la teoria dell’alienazione. Poi tocca a Lenin, secondo cui le masse non possono raggiungere da sole la coscienza dei loro interessi di classe, di cui solo il Partito-avanguardia può renderli consapevoli. Poi arriva la Scuola di Francoforte che con Adorno, Horkheimer e Marcuse denuncia il carattere indotto, e quindi non genuino, dei bisogni delle masse nell’era del consumismo. Infine, in tempi più recenti, una schiera di pensatori anti-capitalisti come Ivan Illich, Serge Latouche, Robert Skidelsky e Jean Claude Michéa teorizza la necessità di comprimere le aspirazioni consumistiche delle masse, ritornando a uno stile di vita più sobrio. Tutte posizioni interessanti, naturalmente, ma accomunate da un tratto inquietante: l’idea che ci debba essere qualcuno, diverso da te, che è nella posizione di riconoscere i tuoi veri interessi e bisogni (un po’ come fa un genitore quando dice a un figlio riluttante «È per il tuo bene»). Ebbene, questo paternalismo teorico-antropologico – che pretende di conoscere così profondamente l’essere umano in astratto da potersi sostituire agli esseri umani concreti – oggi alza prepotentemente la testa con la pretesa del femminismo di stabilire quali siano i veri interessi delle donne. Una pretesa che si scontra con due circostanze empiriche. Primo: esistono da sempre (e oggi più che mai) moltissimi tipi di femminismo, talora in radicale contrasto fra loro e non tutti collocati a sinistra (per una rassegna storica vedi l’ottimo volumetto di Florence Rochefort “Femminismi”, Laterza 2022). Basta tale varietà a escludere che possa aver senso parlare del femminismo come unico interprete autorizzato dei veri interessi delle donne. Secondo: accanto ai movimenti femministi stanno nascendo – specie in America – movimenti di giovani donne che rivendicano esplicitamente la decisione di essere mogli e madri, rinunciando alla carriera. È il caso del movimento delle trade wives (donne tradizionaliste), che su TikTok ha superato 100 milioni di visualizzazioni. E non è tutto. La possibilità di desiderare la divisione tradizionale dei ruoli entro la famiglia, bollata dal femminismo ortodosso come stereotipo imposto alle donne dalla “società patriarcale”, ora fa capolino persino nelle comunità lesbiche e queer. Nel brillantissimo recente romanzo “With Teeth” (“Con i denti”, Bollati Boringhieri 2023), Kristen Arnett – femminista e ardente paladina del mondo queer – immagina una coppia lesbica in cui la madre biologica accudisce il figlio, mentre la madre non biologica tira la carretta, facendo carriera come avvocato. Come a dire: avevano ragione Adam Smith ed Émile Durkheim, che vedevano nella divisione del lavoro una spinta ineluttabile della modernità e non, come le ingenue femministe del nostro tempo, un condizionamento culturale da cui sarebbe imperativo liberarsi respingendo tutti gli stereotipi di genere. Di Luca Ricolfi

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