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Il bambino che scampò al rastrellamento nazista

Il racconto di Mario Mieli, che scampò al rastrellamento del Ghetto di Roma: “A salvarmi la vita fu Agnese Pecci. Un nome che non dimenticherò mai”
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Il bambino che scampò al rastrellamento nazista

Il racconto di Mario Mieli, che scampò al rastrellamento del Ghetto di Roma: “A salvarmi la vita fu Agnese Pecci. Un nome che non dimenticherò mai”
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Il bambino che scampò al rastrellamento nazista

Il racconto di Mario Mieli, che scampò al rastrellamento del Ghetto di Roma: “A salvarmi la vita fu Agnese Pecci. Un nome che non dimenticherò mai”
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Il racconto di Mario Mieli, che scampò al rastrellamento del Ghetto di Roma: “A salvarmi la vita fu Agnese Pecci. Un nome che non dimenticherò mai”
I camion si posizionano agli angoli del vecchio Ghetto di Roma. Le Ss bussano alle porte armi in mano, entrano nelle case, cercano sotto i letti, dentro gli armadi. Vogliono stanare gli ebrei: uomini, donne, anziani e malati, anche i bambini. Consegnano un dattiloscritto, un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: devono essere pronti in venti minuti, portare cibo per otto giorni, soldi e gioielli. Sono le 5.30 del 16 ottobre 1943, il giorno in cui 1.024 ebrei romani vengono deportati ad Auschwitz. Torneranno vivi soltanto in 16, tutti gli altri moriranno nelle camere a gas.
Qualcuno è riuscito a scampare a morte certa, per fortuna o per un gesto di generosità. Come Mario Mieli, oggi 83 anni, all’epoca un bambino: «Abitavamo al terzo piano di un palazzo in via del Portico d’Ottavia, al numero 9» ci racconta. «Avevo due anni e mezzo. I nazisti sono entrati in casa nostra e hanno preso tutti: me, mia madre, mio padre, mia nonna e due miei zii. Si è salvato soltanto mio nonno che era uscito a comprare le sigarette». Le Ss li fanno scendere in strada, a pochi metri c’è un camion che li aspetta. Salgono tutti, nel frattempo il piccolo Mario scivola da un abbraccio all’altro, fino a quello di suo padre, l’ultimo della fila. Intorno a loro, una folla di curiosi assiste alla scena. C’è una donna che non riesce a trattenere lo sdegno: «”Che se lo portano a fare quel ragazzino, lo lasciassero qui”, disse ad alta voce quella signora» ricorda Mario Mieli. «Parole ascoltate da una mia zia che, saputo della retata, si era avvicinata al camion per provare ad avvertire mia madre. A quel punto mia zia chiese a quella donna se poteva provare a prendermi perché lei, in quanto ebrea, avrebbe rischiato troppo. E così fece: disse a un nazista che ero suo figlio e riuscì a convincerlo grazie all’aiuto di un ebreo che sapeva il tedesco, Arminio Wachsberger, uno dei pochissimi a tornare vivo da Auschwitz. La signora mi portò in un parco lì vicino, giocò un po’ con me. Poi arrivò mia zia a portarmi via».
Così Mario Mieli è scampato 80 anni fa al rastrellamento del Ghetto di Roma. Da quel giorno ha vissuto con sua zia e non ha più saputo niente dei genitori: «Non figurano in nessun documento: sono stati cancellati dalla storia. Ho appreso solo dopo anni, dal libro scritto da Settimia Spizzichino – l’unica donna che tornò viva da quell’orrore – che mia madre era stata mandata nei forni crematori». Fino a pochi anni fa Mario Mieli non sapeva nemmeno il nome della donna che gli ha salvato la vita, strappandolo a quel camion diretto all’inferno: «L’ho scoperto per caso: una donna, saputa la mia storia, si è messa in contatto con me. Mi ha detto che a salvarmi la vita fu Agnese Pecci. Un nome che non dimenticherò mai».
Di Giacomo Chiuchiolo

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