Secondo la Commissione europea si può dire “Natale” solo se parte dalle nostre radici cristiane. Questo significa aver perso la testa. La parola corretta è parola corrotta.
Si può liquidare in fretta l’aureo libretto d’istruzioni per lingue legnose, redatto da un ufficio della Commissione europea e ritirato con ipocrisia pari all’averlo concepito. Si può considerarlo una cretinata e finirla lì. Oppure si può avanzare l’ipotesi, da europeisti convinti, ben consapevoli che il bilancio dell’Unione non è affatto gigantesco e semmai striminzito, che presso quegli uffici ci siano funzionari che non sanno come occupare il tempo, a spese del contribuente.
Ma no, la questione è decisamente più seria, anche perché hanno detto «Ci lavoreremo». Non fatelo, perché il manualetto del parlar corretto è solo una tessera del vasto mosaico dell’ipocrisia politicamente corretta. E lo è anche perché la Commissione ha improvvidamente corretto: “Natale” si può dire, giacché parte delle nostre radici cristiane.
E questo significa avere perso la testa. La parola corretta è parola corrotta. Natale lo dico perché è Natale. Se voglio fare auguri da non credente dico: buona fine e buon inizio, buon anno nuovo. «Buone festività» lo lascio dire a chi ha fatto la festa all’intelligenza. Del resto, nel manualetto scimunito c’era: non dite che Natale è stressante, dite che le festività sono stressanti. A dimostrazione che la materia grigia gli si era stressata.
Noi, a Natale, ci divertiamo. Nelle nostre radici, nel nostro essere europei, c’è Pasqua, c’è Pesach e c’è Eid al-Adha. Perché se non ci fossero non saremmo europei. Lo sanno, i burorintronati che compitano manualetti con pagine numerate, che quei numeri non sono europei? Immagino la risposta: certo, sappiamo che sono numeri arabi. Bravi fessi: sono indiani.
Da lì passarono in uso ai musulmani, i quali per secoli abitarono la Spagna moresca ed è da questo pezzo d’Europa e di storia europea che arriva e deriva il nostro modo di numerare e calcolare.
Allora: c’è o no, nelle nostre radici? Direi di sì, benché non si possa escludere che da taluni sia stata sradicata la cultura. E quei taluni mica sono solo gli abitanti della stanza bruxellese che andrebbe sanificata, ma anche i tanti, troppi, che pensano una lingua sia migliore se tace e omologa nascondendo, laddove è meravigliosa quando canta diversificando e disvelando. Nelle nostre radici c’è Eduardo De Filippo.
Ammiratelo in “Ditegli sempre sì”: «C’è la parola, perché non la dobbiamo usare? Parliamo con le parole appropriate, senno io m’embroglio». Lo straordinario dialogo rivela una commedia degli equivoci innescata dal non volere dire le cose come stanno, dal non volere usare le parole appropriate. Dispiace a qualcuno? E chi se ne importa.
C’è maschio e c’è femmina, c’è giovane e vecchio, c’è signore e signori. E c’è il Natale.
A proposito: nessuno s’era mai posto il problema del giacersi di Babbo Natale, tanto più che non c’è traccia di riproduzione, né di Babba in circolazione, sicché ritrarlo in bacio omosessuale è morbosità. C’è la parola, usiamola.
di Gaia Cenol
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Tag: società
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