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Leone Jacovacci, il pugile nero che prese a pugni il razzismo

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Leone Jacovacci, romano d’adozione con il cuore e la pelle venuti da lontano. Per molti è soltanto “Er nero de Roma”, per il fascismo una macchia da cancellare. Per la storia italiana una pagina dimenticata

Leone Jacovacci, il pugile nero che prese a pugni il razzismo

Leone Jacovacci, romano d’adozione con il cuore e la pelle venuti da lontano. Per molti è soltanto “Er nero de Roma”, per il fascismo una macchia da cancellare. Per la storia italiana una pagina dimenticata

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Leone Jacovacci, il pugile nero che prese a pugni il razzismo

Leone Jacovacci, romano d’adozione con il cuore e la pelle venuti da lontano. Per molti è soltanto “Er nero de Roma”, per il fascismo una macchia da cancellare. Per la storia italiana una pagina dimenticata

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Roma, 24 giugno 1928. In uno Stadio nazionale gremito, un boato scuote la folla. Sul ring un uomo dai tratti africani alza le braccia al cielo: ha appena sconfitto Mario Bosisio, pupillo del regime, conquistando il titolo italiano e quello europeo dei pesi medi. Quell’uomo si chiama Leone Jacovacci, romano d’adozione con il cuore e la pelle venuti da lontano. Per molti è soltanto “Er nero de Roma”, per il fascismo una macchia da cancellare. Per la storia italiana una pagina dimenticata troppo a lungo.

Leone nasce nel 1902 (o forse prima) a Sanza Pombo, in Angola, da Umberto – ingegnere romano in fuga dalla crisi economica – e Zibu Mabeta, giovane principessa bantu. Il piccolo viene strappato all’Africa da un padre in cerca di riscatto che lo porta con sé a Roma, in un’Italia allora ancora lontana dalla retorica fascista ma già permeata di razzismo. Qui Leone si scontra presto con l’invisibilità, cosa che contribuisce a donargli una certa irrequietezza. Rinchiuso in collegio, fugge più volte alla ricerca del suo posto in un Paese che non lo riconosce.

Poi a 16 anni scappa davvero: s’imbarca come mozzo su una nave inglese, si reinventa indiano di Calcutta e va a Londra. Lì diventa John Douglas Walker, poi semplicemente Jack, in onore del mitico pugile americano Jack Dempsey. In Inghilterra Leone scopre la boxe e la boxe scopre lui. È potente, veloce, istintivo. Batte avversari su avversari, compreso Roland Todd, futuro campione britannico. Anche quando perde, impara. La sua ascesa lo porta in Francia, poi in Argentina, fino al ritorno in Italia con un solo obiettivo: conquistare il titolo nazionale.

L’occasione giunge nel 1922, quando affronta Bruno Frattini a Milano. Leone domina, ma il verdetto lo penalizza. Il colore della pelle pesa più dei colpi sul ring. È il prezzo dell’Italia fascista, dove il talento si piega alla propaganda. Per poter gareggiare con il suo vero nome, Jacovacci chiede la cittadinanza italiana. Combatte l’ennesima battaglia fuori dal ring e, dopo anni di rifiuti, la vince nel 1927. Il trionfo ha però il sapore dell’inganno. Il 16 ottobre di quell’anno affronta il campione nazionale Mario Bosisio, orgoglio del regime e strafavorito alla vigilia. Leone surclassa l’avversario, teoricamente lo batte, ma una decisione arbitraria che grida vendetta assegna il titolo al suo avversario. Solo l’anno dopo, davanti a migliaia di spettatori, potrà finalmente prendersi ciò che gli spetta. Ed “Er nero de Roma” lo fa, stende Bosisio e diventa campione.

La sua gloria dura però poco: il regime lo considera un affronto vivente, un meticcio che non può incarnare la purezza della razza fascista. Inizia allora il lento esilio sportivo. Gli incontri si fanno rari, le porte si chiudono. Jacovacci si trasferisce in Francia, si presta al catch (antesignano del wrestling), poi scompare. Torna in Italia, a Milano, dove lavora come portiere e vive nel silenzio. Muore nel 1983, dimenticato da tutti ma fiero dei suoi trofei, reliquie di un tempo in cui aveva osato sfidare il potere.

Leone Jacovacci ha combattuto due guerre: una con i guantoni e una contro il razzismo. Le ha perse e vinte entrambe. È stato un simbolo, un’anomalia, un eroe cancellato. Oggi, in un’Italia che ancora fa i conti con la discriminazione, il suo nome risuona come un monito. Perché la storia non appartiene soltanto ai vincitori ma anche a chi, come Leone, ha avuto il coraggio di lottare contro l’ingiustizia. Un round alla volta.

Di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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