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L’inedito femminismo “neorazzista”

La maggior parte delle donne femministe pensa che il femminismo esista ancora. Questa convinzione negli ultimi tempi è stata messa a dura prova. Il nuovo femminismo “neorazzista”

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L’inedito femminismo “neorazzista”

La maggior parte delle donne femministe pensa che il femminismo esista ancora. Questa convinzione negli ultimi tempi è stata messa a dura prova. Il nuovo femminismo “neorazzista”

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L’inedito femminismo “neorazzista”

La maggior parte delle donne femministe pensa che il femminismo esista ancora. Questa convinzione negli ultimi tempi è stata messa a dura prova. Il nuovo femminismo “neorazzista”

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La maggior parte delle donne femministe pensa che il femminismo esista ancora. Questa convinzione negli ultimi tempi è stata messa a dura prova. Il nuovo femminismo “neorazzista”

Credo che la maggior parte delle donne che si dichiarano femministe – un esercito ben più numeroso di quello delle attiviste – pensi che il femminismo esista ancora e, al di là di differenze storiche e varianti ideologiche più o meno note (ben descritte nel libro “Femminismi” di Florence Rochefort), esista un nucleo comune di vissuti, aspirazioni e rivendicazioni. Questa convinzione, tuttavia, negli ultimi tempi è stata messa a dura prova.

Una prima, importante, incrinatura di questa unità si è avuta nel 2017 con il movimento Me Too, sorto in reazione allo scandalo Weinstein. Le sue radicalità e intransigenza hanno finito per alienargli le simpatie di una parte del femminismo storico, suscitando varie reazioni e critiche: la più celebre e influente è la lettera apparsa all’inizio del 2018 a firma di Catherine Deneuve e di un centinaio di artiste e accademiche francesi, preoccupate per la deriva anti-liberale e ciecamente anti-maschio del nuovo filone del femminismo.

Un’altra incrinatura si è prodotta intorno al 2020, quando – soprattutto nel Regno Unito – è scoppiato un conflitto fra le trans-femministe, decise a garantire ai maschi transitati a femmine (MtF) gli stessi diritti delle donne-donne, e le femministe radicali ostili al self-id (autoidentificazione di genere), all’utero in affitto e soprattutto all’invasione degli spazi femminili da parte dei trans MtF. A livello internazionale, questo filone di femminismo critico (o gender critical) è rappresentato dalla Women’s Declaration International (Wdi). Nel Regno Unito le sue esponenti più in vista sono Joanne Rowling (autrice della saga di Harry Potter) e la docente universitaria Kathleen Stock. In Italia è ben rappresentato dal sito Radfem (indirizzo: feministpost.it), fondato da Marina Terragni. Per denigrare questo filone del femminismo le trans-femministe hanno coniato l’acronimo dispregiativo Terf: Trans Exclusionary Radical Feminism.

Ma forse l’incrinatura più profonda è quella che si è prodotta l’8 marzo scorso in Italia, quando la Festa delle donne è stata egemonizzata da slogan e associazioni iper politicizzate, inneggianti ai palestinesi e ostili a Israele. In quella occasione non solo è mancato qualsiasi riferimento al dramma delle donne israeliane stuprate e uccise dai miliziani di Hamas, ma si è addirittura assistito alla cacciata dal corteo di una ragazza che osava ricordare quel dramma. Questo episodio, unito ad altre scelte del passato (il silenzio delle femministe sugli stupri di suore in Africa), ha condotto Lucetta Scaraffia, storica ed editorialista de “La Stampa”, ad affermare che – con quel tipo di 8 marzo, settario e impietoso – il femminismo aveva cessato di esistere.

La mia impressione è che, in realtà, quello cui stiamo assistendo è sì l’inabissamento del femminismo storico (vividamente rappresentato dalle studentesse che a Torino contestano Chiara Saraceno, la sociologa femminista più illustre) ma anche la nascita, o meglio il consolidamento, di un tipo di femminismo nuovo, basato su un unico principio fondamentale: la pretesa di stabilire una gerarchia di condizioni di oppressione della donna e di ancorarla a caratteri ascritti, immodificabili o molto difficilmente modificabili.

In questa gerarchia al vertice troviamo le donne di Gaza, poi le donne musulmane in Occidente (purché a violentarle non sia un musulmano: ricordate il silenzio su Saman Abbas?), poi le donne italiane, ma a nessun livello incontriamo le donne di Israele. Una inedita forma di razzismo – basato sull’etnia e sulla nazione di appartenenza – le esclude da ogni solidarietà, sostegno, empatia, immedesimazione e le discrimina rispetto a tutte le altre donne.

Non so se l’aggettivo più adeguato per descrivere questo inedito tipo di femminismo, freddo e discriminatorio, sia “neorazzista” o se vi siano termini più puntuali. Quel che mi sembra indubbio è che del razzismo esso ripete un tratto essenziale: ignorare la persona e vedere solo la categoria cui essa appartiene per nascita.

di Luca Ricolfi

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