Il politicamente corretto arriva sullo scaffale degli shampoo
| Società
Il ‘follemente’ corretto continua la sua corsa e approda anche nello shampoo etico: la Unilever, a seguito di un’indagine di mercato, ha deciso di togliere dal mercato i propri shampoo per capelli normali perché poco inclusivi.

Il politicamente corretto arriva sullo scaffale degli shampoo
Il ‘follemente’ corretto continua la sua corsa e approda anche nello shampoo etico: la Unilever, a seguito di un’indagine di mercato, ha deciso di togliere dal mercato i propri shampoo per capelli normali perché poco inclusivi.
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Il politicamente corretto arriva sullo scaffale degli shampoo
Il ‘follemente’ corretto continua la sua corsa e approda anche nello shampoo etico: la Unilever, a seguito di un’indagine di mercato, ha deciso di togliere dal mercato i propri shampoo per capelli normali perché poco inclusivi.
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Le parole “normale” e “normalità” sono da sempre sotto accusa.
L’idea che una persona possa essere normale e altre no crea disagio. Ad alcuni fa venire in mente Hitler, l’eugenetica e la selezione dei migliori. Ad altri non piace essere etichettati come anormali. Ad altri ancora, invece, è la normalità che non piace. Preferiscono essere “diversi da loro” (cioè dai normali, suppongo). È il caso dei Måneskin: «Sono fuori di testa ma diverso da loro / E tu sei fuori di testa ma diversa da loro / Siamo fuori di testa ma diversi da loro».
Dove la faccenda si fa seria è quando si parla di handicap, fisici e mentali. Anche lì dire “normale” è proibito e dire “anormale” è proibitissimo. Ma su come vadano chiamati coloro che hanno qualche disabilità non c’è accordo. Anzi, è in corso una disfida fra i molestatori della lingua. C’è chi si ostina a chiamare “non vedenti” i ciechi e c’è chi ci ha ripensato e ora vorrebbe che i ciechi tornassero a essere chiamati “ciechi” perché quel “non” è negativo, mentre la parola “cieco” indicherebbe una caratteristica come tante. E lo stesso accade per un’altra parola: c’è chi suggerisce di dire “disabile” e c’è chi pensa che dire “persona con una disabilità” sia più rispettoso.
Fin qui tutto bene. Siamo, è vero, nel regno del politicamente corretto. Ma le sue ragioni, in fondo, sono comprensibili.
L’ipersensibilità su parole come “normale” e “normalità” ha una sua logica. Possiamo trovarla eccessiva, pedante, bigotta e ipocrita ma riusciamo a scorgerne l’origine e le motivazioni. Che stanno nel fatto che stiamo parlando di persone e di aspetti delicati del loro corpo o della loro mente.
Ma quando si parla di cose? O di caratteristiche banali delle persone come la pressione sanguigna, la misura dei piedi, il tipo di capelli? Dire «Oggi ho passato una giornata normale» può offendere le altre giornate? C’è un signor “ieri” che può sentirsi escluso? O un signor “dopodomani” che può sentirsi discriminato? Dire che Giuseppe ha la pressione normale può offendere Giuseppina che invece ce l’ha alta? Verrebbe di rispondere no.
E invece sì. Chiunque vada in farmacia a comprare uno shampoo sa che, sul bancone, ne troverà per capelli di ogni tipo: grassi, secchi, con forfora, ricci, crespi, colorati eccetera. E naturalmente pure una confezione per capelli “normali”. Ora non più.
Un’indagine di mercato di Unilever ha rivelato che sette intervistati su dieci riterrebbero che l’uso della parola “normale” sulle confezioni abbia un impatto negativo. Il 56% delle persone che hanno espresso tale parere pensa che l’industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa, mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell’azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti. In breve, lo shampoo per una capigliatura normale, nella misura in cui implica logicamente l’esistenza di capigliature non normali, comporterebbe una discriminazione, un deficit di inclusività. Di qui una decisione drastica: in nome del cosiddetto inclusive advertising, d’ora in poi Unilever toglierà dal bancone lo shampoo per capelli normali.
L’etica dello shampoo ha vinto. Ora che i capelli normali non esistono più, nessuno potrà più sentirsi escluso o discriminato. Oppure, finalmente, ci sentiremo tutti anormali.
di Luca Ricolfi
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