Ottant’anni fa si apriva il processo di Norimberga
Ottant’anni fa si apriva il processo di Norimberga. Per la prima volta, il mondo cercò di giudicare non solo i crimini ma il principio stesso del potere illimitato
Ottant’anni fa si apriva il processo di Norimberga
Ottant’anni fa si apriva il processo di Norimberga. Per la prima volta, il mondo cercò di giudicare non solo i crimini ma il principio stesso del potere illimitato
Ottant’anni fa si apriva il processo di Norimberga
Ottant’anni fa si apriva il processo di Norimberga. Per la prima volta, il mondo cercò di giudicare non solo i crimini ma il principio stesso del potere illimitato
Esattamente ottant’anni fa oggi, in una città frantumata e silenziosa, si apriva uno dei capitoli più audaci e controversi del Novecento: il processo di Norimberga. A emergere tra le macerie non fu soltanto un’aula giudiziaria ma un laboratorio morale in cui il mondo tentò per la prima volta di giudicare non solo i crimini ma il principio stesso del potere illimitato.
Le immagini sono note: i gerarchi nazisti allineati come statue incrinate, il Tribunale internazionale davanti a loro, la voce metallica degli interpreti che rimbalza nelle cuffie. Ma dietro quella scenografia oggi iconica si consumò una battaglia politica feroce. Processare i nazisti era inevitabile; farlo proprio a Norimberga non vedeva invece tutti d’accordo. Soltanto dopo lunghi confronti gli Alleati decisero la scelta del luogo dove celebrare il processo più importante della storia recente. Per molti Norimberga rappresentava il simbolo perfetto: il palcoscenico delle adunate hitleriane trasformato nel luogo della condanna. Gli inglesi avrebbero preferito Monaco o Berlino; alcuni americani dubitavano che una città semidistrutta potesse sostenere un processo di tale portata; i sovietici temevano che quel luogo ‘troppo tedesco’ potesse oscurare il carattere universale del giudizio.
Intanto nell’aula 600 si preparava un teatro umano complesso. Gli imputati erano figure storiche, ma anche uomini fragili oppure ostentatamente arroganti. Hermann Göring trasformò le prime sedute in un duello continuo, convinto di poter dominare l’aula come un tempo aveva dominato la scena politica. Il momento più teso arrivò durante l’interrogatorio serrato condotto dal capo della delegazione americana: Robert H. Jackson, giurista austero noto per la sua idea radicale di giustizia e fermo sostenitore del ruolo del diritto internazionale nel giudizio dei crimini del Reich. Di fronte alle provocazioni di Göring, Jackson mantenne una fermezza glaciale, incarnando così la volontà di fondare un nuovo ordine giuridico. Accanto a lui il britannico Hartley Shawcross, giovane procuratore generale dal linguaggio tagliente, introdusse l’argomento della responsabilità collettiva e del dovere morale oltre l’obbedienza.
Il francese François de Menthon, cattolico e intellettuale, diede ai capi d’accusa una profondità filosofica parlando del «crimine contro la persona umana» come di una ferita universale. Davanti a loro Rudolf Hess inscenò una misteriosa amnesia che lasciò la sala sospesa fra incredulità e irritazione; soltanto mesi dopo confessò la messinscena, perché in realtà si ricordava tutto. Albert Speer, il ‘tecnico del regime’, fu l’unico a dichiarare una responsabilità morale, arrivando ad affermare di aver persino pensato di uccidere il Fuhrer e trasformando la sua difesa in un ambiguo tentativo di distinguersi dagli altri gerarchi. Ogni gesto e ogni frase componevano il mosaico psicologico di un regime che, persino sul banco degli imputati, cercava di reinventare sé stesso.
Ottant’anni dopo il nome di Norimberga non appartiene più ai gerarchi che vi sfilavano tra le torce, ma alle norme che da lì sono nate: la definizione dei genocidi, i princìpi del diritto penale internazionale e l’idea che nessuna divisa, nessun titolo, nessuna obbedienza possa assolvere l’atrocità. E se quel processo allora divise, scandalizzò, spaventò, oggi appare per ciò che davvero è stato: un atto fondativo.
La prova che persino tra le rovine più nere è possibile erigere un tribunale e dentro quel tribunale una speranza. Norimberga non fu soltanto la resa dei conti con un passato di sangue: fu la dichiarazione che l’umanità non rinuncia a giudicare il male, anche quando il male sembra aver giudicato l’umanità intera. A otto decenni di distanza quella voce non si è spenta. Continua a risuonare come un monito, un argine, un appello. E ci ricorda che la giustizia, se trova il coraggio di parlare tra le rovine, può diventare la prima pietra di un mondo nuovo.
Di Stefano Faina e Silvio Napolitano
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