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La parità di genere

Parità e ipocrisia, il genere strumento di pubblicità

Sono tanti i casi nella storia e nel recentissimo passato di aziende che utilizzano la parità di genere come mero strumento di pubblicità. Nella realtà il discorso è molto diverso
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Parità e ipocrisia, il genere strumento di pubblicità

Sono tanti i casi nella storia e nel recentissimo passato di aziende che utilizzano la parità di genere come mero strumento di pubblicità. Nella realtà il discorso è molto diverso
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Parità e ipocrisia, il genere strumento di pubblicità

Sono tanti i casi nella storia e nel recentissimo passato di aziende che utilizzano la parità di genere come mero strumento di pubblicità. Nella realtà il discorso è molto diverso
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Sono tanti i casi nella storia e nel recentissimo passato di aziende che utilizzano la parità di genere come mero strumento di pubblicità. Nella realtà il discorso è molto diverso
La parità di genere per la nostra azienda è un valore certificato» oppure «Rispettiamo l’uguaglianza fra uomini e donne: Rigorosamente!». Qualche mese fa era questo il payoff della pagina pubblicitaria di un noto marchio alimentare. Peccato che poi l’immagine abbinata facesse pensare come prima cosa a un pesce d’aprile anticipato, visto che il calendario segnava metà marzo. Il claim – non particolarmente ricercato ma che voleva passare come un messaggio ‘illuminato’ – era infatti inserito in una grande fotografia con centinaia di dipendenti dell’azienda. Nelle prime file era però difficile trovare donne: non più di quattro per oltre venti uomini. La situazione non cambiava molto nella seconda e terza fila così come nel resto dell’immagine. Nella massa scura di completi blu, neri e grigi le donne (anche loro rigorosamente in scuro) non c’erano quasi. Difficile capire cosa questa azienda intenda per uguaglianza. Forse punta alla mimetizzazione oppure a sviluppare un ragionamento sulle specie protette: un claim più adeguato sarebbe potuto essere «Pensate, da noi lavorano anche alcune donne!». Nella storia e nel recentissimo passato abbiamo assistito a numerosi casi di epic fail – in italiano la formula sarebbe meno elegante – ed evidentemente non s’impara spesso dall’esperienza. Diverse aziende ma anche molti manager, speaker e politici pensano che per essere immediatamente considerati virtuosi sia sufficiente inserire le parole inclusion e diversity nei loro speech o nei loro post sui social. Peccato che molto spesso si tratti di parole vuote che non corrispondono non soltanto alla reale cultura aziendale o personale ma neppure all’immagine abbinata. Per essere inclusivi non è certo sufficiente mettere qualcosa di colorato di arcobaleno negli uffici; in azienda conta una cultura attenta alle diversità e fondata su un’equilibrata e serena valutazione dei meriti personali. Tassello fondamentale per il raggiungimento di un’effettiva parità. Se sul magazine aziendale si pubblica la foto di un torneo di pallavolo come esempio di inclusione di tutto il personale (del quale non si manca di ricordare la composizione femminile al 50%, ovviamente senza specificare a quale livello), questa non può ritrarre una cinquantina di uomini sudati e contenti e appena tre donne colorate e con il sorriso d’ordinanza. Si vuole forse trasmettere il messaggio che le donne abbiano avuto il privilegio di essere state ammesse al torneo? Non che questo sia stato poi un gran successo di inclusione, visto che vi hanno partecipato in pochissime… In questo modo vengono declinati in maniera bislacca, depotenziandoli, concetti che avrebbero semmai bisogno di idee e soluzioni innovative. Questa moda di colorare di rosa il nulla, come si è già fatto a suo tempo con il verde, sminuisce tutto quello che viene faticosamente fatto di concreto da quanti credono sinceramente in questi valori, combattendo se necessario anche contro i mulini a vento. Nel frattempo, una spruzzata di colore qua e là e l’arcobaleno è fatto.   di Federica Marotti

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