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Pazza in quanto donna

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La mostruosa creazione dei manicomi femminili in Italia, dietro alla quale si celava la paura che la donna potesse minacciare l’ordine sociale e il patrimonio morale dello Stato

Pazza in quanto donna

La mostruosa creazione dei manicomi femminili in Italia, dietro alla quale si celava la paura che la donna potesse minacciare l’ordine sociale e il patrimonio morale dello Stato

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Pazza in quanto donna

La mostruosa creazione dei manicomi femminili in Italia, dietro alla quale si celava la paura che la donna potesse minacciare l’ordine sociale e il patrimonio morale dello Stato

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In Italia, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in coincidenza con la nascita di una società moderna e urbana si sviluppa anche un altro fenomeno: quello del grande internamento manicomiale. In quegli anni si costruiscono ovunque manicomi che, oltre a curare la follia, diventano strumenti per mantenere l’ordine pubblico e proteggere la moralità. È il momento in cui la devianza, soprattutto quella femminile, viene regolata attraverso un sistema di reclusione e controllo sociale.

Questo aspetto, già manifestatosi all’indomani dell’Unità d’Italia, si irrobustisce ulteriormente durante il ventennio fascista, nel corso del quale i manicomi diventano parte integrante del progetto atto a plasmare cittadini obbedienti e produttivi per la ‘rivoluzione’ voluta dal Duce. Particolarmente colpite sono quelle donne che si discostano dall’ideale di sposa e madre esemplare. Ribelli, indipendenti, inadeguate secondo i canoni fisici e morali del tempo, vengono classificate come pericolose per il patrimonio biologico della nazione.

Attraverso l’istituzione psichiatrica, il regime opera una vera ‘reinvenzione’ dell’identità femminile, modellandola sulle esigenze dello Stato totalitario. Il manicomio diventa così strumento di annullamento dei diritti individuali e di rieducazione alla normalità biologicamente e socialmente costruita. Tra il 1927 e il 1941 i pazienti passano da circa 60mila a quasi 95mila unità. Le mura rinchiudono madri inadeguate, ragazze ribelli, vittime di violenza e donne semplicemente definite «troppo vivaci». Emblematici sono i casi documentati da Annacarla Valeriano: ragazze internate per comportamenti «intemperanti», «sessualmente disinibiti» o per aver trasgredito le rigide regole familiari. Come accadde a Margherita F., contadina analfabeta, reclusa in manicomio dopo anni di maltrattamenti familiari. O a Rosa D., condannata a un’intera vita all’interno della struttura psichiatrica Sant’Antonio Abate di Teramo per la sola colpa di essere «stravagante».

Anche dopo la caduta del fascismo la situazione cambia poco. Nel secondo dopoguerra il trauma dei conflitti, la miseria e la solitudine continuano a spingere molte donne sane verso il manicomio. Fino agli anni Sessanta e oltre vengono internate per punizione sociale: per aver lasciato la casa, amato liberamente, non aver rispettato l’autorità domestica. Negli anni delle battaglie per l’emancipazione femminile, alcune giovani venivano addirittura ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro «per unirsi con i ‘capelloni’» o perché erano andate «nelle bettole a fare l’amore».

Dietro il fenomeno dell’internamento femminile si celava più di ogni altra cosa la paura, mai del tutto sopita, che la donna potesse minacciare l’ordine sociale e il patrimonio morale dello Stato. Le pazienti – tanto più se sole, orfane, vedove o provenienti da ambienti di povertà estrema – venivano stigmatizzate e marginalizzate senza possibilità di riscatto. Il manicomio diventava così il culmine di una violenza patriarcale iniziata ben prima delle mura dell’istituto.

Soltanto nel 1978, con l’approvazione della legge Basaglia, si pose fine al sistema dei manicomi. Una conquista tardiva che chiuse una pagina buia della storia italiana, fatta di soprusi, emarginazione e sopraffazione di chi aveva avuto l’unica colpa di essere donna in un mondo che non ne accettava la libertà.

Di Stefano Faina e Silvio Napolitano

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