Ci sono storie che hanno il formidabile potere di riassumere da sole tutti gli aspetti più deleteri della spettacolarizzazione e della sciatteria giudiziaria dei nostri tempi. Prendi Brescia, dove da quattro anni è in corso un processo per maltrattamenti nei confronti di un uomo di origine bengalese. Ad accusarlo è la sua ex moglie – bengalese anche lei nonché di lui cugina – costretta a sposarlo perché ‘venduta’ da uno zio per 5mila euro (da quelle parti è pratica lecita e diffusa). La donna sostiene che da quando sono arrivati in Italia lui le abbia reso la vita impossibile, nel tentativo di costringerla a rispettare le usanze del Paese d’origine senza lasciarsi ammaliare dalle venefiche libertà occidentali. Botte, minacce, umiliazioni e vessazioni assortite: a un certo punto la signora ha detto basta e ha denunciato il consorte manesco.
Se quattro anni dopo siamo ancora qui a parlarne non è tanto per una questione di tempistica (quattro anni per un primo grado sono ordinaria amministrazione per la nostra giustizia lento pede), quanto per la requisitoria pronunciata dal pm: «I contegni di compressione delle libertà morali e materiali da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura». Al netto di verbosità forensi: l’imputato va assolto, non è colpa sua se nel Paese dov’è nato i mariti si comportano così.
Scopriamo dunque che il pm ha invocato un inesistente concetto di responsabilità penale ‘etnica’, basato su usi e costumi del Paese di provenienza dell’imputato. Quasi dimenticasse che – ad esempio – se l’infibulazione è consentita in diversi Stati africani e asiatici, da noi è reato. E che a prescindere da ciò che è consentito là dove sei nato, quando vivi in un altro Paese sei tenuto a osservarne le leggi. Il procuratore capo ha scaricato il suo pm giustificandone la requisitoria con l’autonomia riconosciuta dal codice di procedura penale, ma al tempo stesso ripudiando «qualunque forma di relativismo giuridico».
Il danno però era fatto. Perché le semplici parole di un pm sono rimbalzate sui media più superficiali come fossero le motivazioni di una sentenza definitiva, con il consueto codazzo di dichiarazioni indignate di politici e richieste scandalizzate di ispezioni ministeriali in Procura. Mentre nessuno riflette sul fatto che a dover emettere la sentenza non è il rappresentante della pretesa punitiva dello Stato, ma un giudice. Che quella sentenza non necessariamente aderirà alle richieste del pm. E che se anche vi aderirà, sarà pur sempre un verdetto di primo grado, smentibile e smontabile nei passaggi successivi.
di Valentino Maimone
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