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Quando ce l’avevamo profumato… l’alito

Poche cose come la pubblicità riescono a descrivere i costumi del tempo. Slogan indimenticabili al punto dal sommergere i brand e gli oggetti per cui erano stati ideati
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Quando ce l’avevamo profumato… l’alito

Poche cose come la pubblicità riescono a descrivere i costumi del tempo. Slogan indimenticabili al punto dal sommergere i brand e gli oggetti per cui erano stati ideati
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Quando ce l’avevamo profumato… l’alito

Poche cose come la pubblicità riescono a descrivere i costumi del tempo. Slogan indimenticabili al punto dal sommergere i brand e gli oggetti per cui erano stati ideati
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Poche cose come la pubblicità riescono a descrivere i costumi del tempo. Slogan indimenticabili al punto dal sommergere i brand e gli oggetti per cui erano stati ideati
Poche cose come la pubblicità riescono a descrivere i costumi del tempo, cristallizzandoli in qualche misura per i posteri.  Qualche giorno fa mi è capitato di riflettere del tutto casualmente su come la mia generazione sia cresciuta cullata da alcuni slogan divenuti fortunatissimi. Al punto, in taluni casi, dal sommergere i brand e gli oggetti per cui erano stati ideati.  Cominciando a vivere di vita propria e riflettendo – come si accennava – mode, abitudini e anche licenze che oggi appaiono lunari. Pensate all’uso abbondante e regolare che si faceva del doppio senso, in un’epoca che si voleva – vista con gli occhi di oggi, si badi – molto più “moralista” di quella attuale.  Come più volte ci è capitato di sottolineare riflettendo anche sugli spettacoli televisivi o radiofonici dell’epoca, non era sempre vero o non vero del tutto: il leggendario “grande pennello” della Cinghiale, in uno spot sopravvissuto alle ere geologiche e andato in onda per un numero incredibile di anni è lì a dimostrarlo.  Che dire, poi, delle mentine e del: “Ce l’ho profumato… l’alito”. Oltretutto recitato con smaccato accento siciliano… Era un’Italia insopportabilmente maschilista, si dirà. Vero e anche appesantita da una pesante aria di sessismo e soffocante provincialismo.  Non solo, però: era anche un Paese che sapeva prendersi meno sul serio, giocare o almeno restare in equilibrio molto più di quanto talvolta capiti oggi.  Nessuna nostalgia delle battute volgari o a doppio senso, per carità del cielo, ma di una superiore libertà d’espressione quello sì. Proviamo a spiegare: nessuno oggi si sognerebbe di scrivere e realizzare uno spot come quello del noto deodorante, in cui una mano femminile si insinuava nella camicia rigorosamente jeans del macho di turno e veniva fermata, “perché l’uomo non deve chiedere mai”. Tanto per cominciare scoppieremmo tutti a ridere (o piangere) e una frase del genere si coprirebbe istantaneamente di ridicolo. Detto ciò, è pur vero che la coltre del politicamente corretto rischia di soffocare non solo le battute idiote, ma anche quelle intelligentemente pungenti e salaci.  Quei guizzi di originalità disturbante, che da sempre aiutano le società a rendersi conto dei propri difetti. Il conformismo in cui finiamo giorno dopo giorno sempre più avvolti non è un pericolo per gli aspetti deteriori della società. Perché finisce paradossalmente per proteggerli.  Nell’era delle connessioni, segnata da una comunicazione pervasiva, abbandonarsi a un’incredibile serie di divieti non detti e non scritti è oltremodo pericoloso.  Tanto è vero che quando qualcuno osa l’inosabile – si pensi alla banca (una banca!) che invita a fare “un tasso” – il claim resta istantaneamente scolpito nella memoria. Funziona, insomma, molto più del solito messaggio consolatorio e invariabilmente buonista che caratterizza buona parte della comunicazione commerciale e non solo odierna. di Fulvio Giuliani

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