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L’altra faccia di Francesco Guccini
Farewell, l’intertestualità e una mostra, fino al 26 agosto a Bologna, in onore al grande Maestro Francesco Guccini.
Fino a venerdì 26 agosto il volto di Francesco Guccini sarà esposto in ottanta caricature all’Assemblea legislativa di viale Aldo Moro 50 a Bologna. La mostra, a cura di Gianandrea Bianchi, Guido De Maria e Leonardo Cannistrà, s’intitola – ovviamente – “Non so che viso avesse. Francesco Guccini ritratto da 80 caricaturisti internazionali”. Il presidente dell’Assemblea Emma Pettiti ha sottolineato che l’omaggio a Guccini è «una sfilata di idee, uno stimolo per contestualizzare […] il suo mondo artistico e umano, ringraziandolo per essere sempre capace con le parole in musica, o con i suoi libri, di insegnarci, anche con ironia, a non arrenderci, a combattere contro le ingiustizie sociali, le violenze, le guerre». “Non so che viso avesse” è il verso che apre la celeberrima canzone “La locomotiva” (“Radici”, 1972). Memorabile fu il monito che Giorgio Gaber rivolse ai bolognesi: «Ricordatevi: Sting è molto bravo, però tenetevi il vostro Guccini. Uno che è riuscito a scrivere tredici strofe su una locomotiva, può scrivere davvero di tutto».
È noto, infatti, che l’abilità espressiva di Guccini – autore di svariati romanzi, tra cui “Cròniche epafàniche” (1989) – sconfina nei territori della letteratura. Dal punto di vista propriamente tecnico. Pensiamo a “Farewell”, contenuta nell’album “Parnassius Guccinii” (1993; l’allusione è a una farfalla identificata dall’entomologo Giovanni Sala e dedicata al Maestrone). È una ballata dolceamara che racconta l’inizio, lo svolgimento e la fine di una storia d’amore e che sotto il profilo narratologico ha la sua spannung, cioè il momento di massima tensione (anche musicale) del brano, nella quarta strofa: «Era facile vivere allora, ogni ora / chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci / e ogni notte inventarsi una fantasia / da bravi figli dell’epoca nuova, / ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova, / ma stupiti e felici scoprimmo che / era nato qualcosa più in fondo / ci sembrava d’avere trovato la chiave segreta del mondo». Lo sguardo pungente e disilluso del cantautore emiliano si sofferma sull’inevitabile erosione che il tempo – tematica par excellence della poetica gucciniana – provoca nelle fragili relazioni umane, spesso non in grado di reagire ai guasti da esso provocati: «Ora il tempo ci usura e ci stritola / in ogni giorno che passa correndo, / sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo».
Ma c’è un altro marchingegno letterario in questo pezzo: l’intertestualità. Sì perché il rapido (e un po’ ingolfato) cenno al verso «The triangle tingles and the trumpet plays slow» è una citazione che spiega il titolo della canzone: proviene da “Farewell, Angelina” scritta da Bob Dylan e registrata durante la prima sessione di “Bringing It All Back Home”, poi ceduta a Joan Baez che la incise nell’omonima raccolta del 1965. L’addio ad Angelina è un esempio particolarmente efficace di riferimento intertestuale: non è soltanto l’esibizione di una citazione colta, ma aduna in sé il nome della donna amata in passato.
Di Alberto Fraccacreta
4
VOTO:
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Guccini con la sua musica, e i suoi libri, insegna con ironia a non arrenderci, a combattere contro le ingiustizie sociali, le violenze, le guerre.
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Fa un po’ specie dedicare una mostra ad un’artista ancora in vita. Se avete la possibilità godetevi un suo concerto dal vivo.
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