Ghali, l’ambasciatore e l’equilibrio
La polemica sulla frase “Stop al genocidio” del cantante Ghali: nessuna superficialità ma, semmai, una evitabile forzatura
Ghali, l’ambasciatore e l’equilibrio
La polemica sulla frase “Stop al genocidio” del cantante Ghali: nessuna superficialità ma, semmai, una evitabile forzatura
Ghali, l’ambasciatore e l’equilibrio
La polemica sulla frase “Stop al genocidio” del cantante Ghali: nessuna superficialità ma, semmai, una evitabile forzatura
La polemica sulla frase “Stop al genocidio” del cantante Ghali: nessuna superficialità ma, semmai, una evitabile forzatura
Partiamo da qui: personalmente non ho apprezzato l’estrema e inevitabilmente semplicistica frase “Stop al genocidio“, con cui Ghali ha concluso la sua esibizione nella serata finale del Festival di Sanremo.
Per un motivo semplice: le posizioni, le idee e le opinioni sono ovviamente legittime quando espresse in modo civile, ma provare a definire una crisi e una tragedia come quella che si sta sviluppando dallo scorso 7 ottobre (quella data non può essere dimenticata) con due parole è inevitabilmente una forzatura.
Una semplificazione buona per i tempi di uno show, ma non tutto può essere show. Soprattutto per quel riferimento al “genocidio“ che già in altre occasioni ho avuto modo di ricordare come sia rivoltante da accostare allo Stato di Israele. Agli ebrei, per essere più precisi. Sono aggiornato del procedimento in corso all’Aia, che ricorderei agli ultras di una parte e dell’altra essere alle fasi preliminari, prima di essere utilizzato come clava.
Torniamo, però, a Sanremo e a Ghali: l’ambasciatore israeliano in Italia ha usato parole dure nei suoi confronti e più in generale del Festival reo – a suo dire – di non aver ricordato le vittime del 7 ottobre (aggiungiamo che l’Ucraina è praticamente sparita: l’anno scorso ci fu gran polemica per l’eventuale intervento del presidente Zelensky, ma evidentemente ci si abitua a tutto e tutto rischia di diventare routine). In particolare, di aver dimenticato la strage perpetrata da Hamas al rave nel Sud in Israele.
L’annotazione ha un fondamento: un evento dedicato alla musica che ha trovato il tempo di occuparsi per una settimana dei trattori – senza sapere bene cosa fare – un riferimento a quella tragedia avrebbe potuto farlo, ricordando magari la profanazione anche della musica come strumento di pace e dialogo. Non si sono avuti questa forza e questo coraggio: meglio non toccare temi potenzialmente incandescenti.
Così sono rimasti gli inviti al cessate il fuoco e più genericamente alla pace, che suonavano – siamo onesti – come condanne delle operazioni militari israeliane. Che noi abbiamo stigmatizzato non so più quante volte, nella speranza che gli anticorpi democratici di Israele prendano il sopravvento sulla mancanza di strategia di un leader che si sta dimostrando una sciagura per il suo Paese. Eppure non si può semplificare così, non si può dire e non dire.
Quanto a Ghali, ribadita la critica a quella frase, ci andremmo cauti nel descriverlo come un personaggio superficiale o alla caccia della polemica “facile”. Ha ribadito di aver scritto il pezzo portato a Sanremo, con tutti i suoi riferimenti alla pace, ben prima del 7 ottobre e non abbiamo motivo di dubitare delle sue parole.
Ha le sue idee e non le sposiamo sempre, ma è un artista che ha avuto in tante occasioni la voglia e il coraggio di sottolineare la propria italianità con un’energia che tanti, presunti “veri” italiani (in che senso?! Boh…) non si sarebbero mai sognati. Che sia occasione di dialogo.
di Fulvio Giuliani
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Tag: israele, sanremo2024
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