Perdere la vita il giorno prima di nascere. Pare una provocazione, una sorta di esercizio accademico: una speculazione, sul senso della vita. Invece è realtà. Un fatto che non si riesce neppure a definire, quasi le parole stentassero a ordinarsi logicamente. La vita di una madre e del figlio, unite per sempre. Con l’assurdo, delicato risvolto di una vita non nata, di una madre che non ha visto il volto del suo bambino.
Le cause del disastro di Ravanusa? Le troveranno. Alla fine si tratta di sciatteria, approssimazione, il disordine di una realtà afflitta da aporie insuperabili tra efficienza e caos. Non sono le cause di cui si deve parlare. Quanto avvenuto ha implicazioni assai più impegnative.
Offre l’opportunità di riflettere sulla fragilità dell’uomo; sull’illusorietà delle certezze che poniamo al centro della convinzione, irrealistica, di dominare l’universo; sulla banalità di gesti che quotidianamente connotano scontri tra opposte pseudo potenze; sulla farraginosità delle dispute su ciò che è opportuno fare per contrastare un virus; sulla inutilità dei contrasti tra chi si vaccina e coloro che ritengono insopportabile farlo; sull’assurdità della violenza come metodo per contrastare il diritto degli esclusi a tentare l’inclusione. Potrebbe essere il pretesto per ragionare sull’infinita problematicità della vita. O forse è solo ansia di silenzio.
A che servono le parole? Meglio il silenzio. «Allora il silenzio è rassicurante. Lo cerco dentro di me… e mi perdo nei miei pensieri» (Erling Kagge).
di Cesare Cicorella
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