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"In Utero" dei Nirvana

“In Utero” dei Nirvana compie 30 anni

Inizialmente il titolo del disco era “I Hate Myself And I Want To Die” poi Cobain cambiò  idea, spinto dal pressing di produttori e colleghi della band
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“In Utero” dei Nirvana compie 30 anni

Inizialmente il titolo del disco era “I Hate Myself And I Want To Die” poi Cobain cambiò  idea, spinto dal pressing di produttori e colleghi della band
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“In Utero” dei Nirvana compie 30 anni

Inizialmente il titolo del disco era “I Hate Myself And I Want To Die” poi Cobain cambiò  idea, spinto dal pressing di produttori e colleghi della band
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Inizialmente il titolo del disco era “I Hate Myself And I Want To Die” poi Cobain cambiò  idea, spinto dal pressing di produttori e colleghi della band
“I Hate Myself And I Want To Die”, in sostanza odio me stesso e vorrei morire. Il titolo di “In Utero” era questo prima che Kurt Cobain cambiasse idea, spinto dal pressing di produttori e colleghi della band. Quel titolo sparì, non il disagio di chi lo mise su carta. Anzi. Nel leggendario e controverso disco dei Nirvana che compie 30 anni (il 27 ottobre uscirà la ristampa con diverso materiale inedito) in realtà tutto era evidente, dalla copertina con un angelo in plexiglass con le ali come la Nike di Samotracia e viscere in bella mostra: era il testamento di Cobain, il lascito a un mondo che gli procurava sofferenza, dolori fisici, generando rabbia e tossicità.
 
Era (e nessuno al tempo lo sospettava, sino al suicidio dell’artista) anche l’epilogo del grunge: una stagione breve e meravigliosa che ha mandato al bar il rock cotonato degli anni Ottanta, che si è consumata tutta a Seattle e che forse rappresenta l’ultima vera novità musicale. Testi semplici, chitarre e voce stridula, dirette nei denti, come le canzoni da tre minuti scarsi dei Nirvana. Una rivelazione, prima che tutto o quasi fosse permeato dall’orribile termine “mainstream” e poi dalla rivoluzione tech che ha reso la musica liquida, spezzettata, da consumare come uno snack e spesso sempre uguale e con assai poco da dire. Cobain sarebbe morto l’anno successivo. Si è suicidato e quel gesto, quella morte praticamente annunciata durante il tour europeo dei Nirvana (che fece tappa anche a Roma), ha contribuito a collocarlo fra gli dèi del rock, assieme a pochi altri.
 
“In Utero” è finito nei negozi nella prima fetta degli anni Novanta e chi ora si avvia verso la parte centrale della sua vita, avvolto da lavoro e figli, allora era un ragazzino – forse anarchico, forse troppo silenzioso, forse inserito nei codici di una vita da studente e bravo ragazzo – che attraverso i Nirvana è riuscito a incanalare il suo disagio giovanile. O a esserne quantomeno attratto, pure se quello stato d’animo ribelle è stato assente o contenuto.
 
Cobain e i Nirvana erano arrabbiati, furiosi. Altre band del grunge (come Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains) erano invece più cupe e intimiste. Kurt era invece consumato dal suo talento e dal disagio di essere al mondo. “Nevermind”, l’album che due anni prima aveva segnato la fine della fase cotonata del rock degli anni Ottanta, gli aveva consegnato il successo, il vestito della rockstar che apertamente detestava perché aveva reso il suo mondo (da sempre parecchio difficoltoso) noioso e disgustoso. C’era da chiarire le cose e “In Utero” servì proprio a questo: musica per esprimere dolore e dissipazione. Piuttosto, trent’anni dopo cos’è rimasto in quella generazione di ragazzi di quel disagio giovanile – espresso oggi dagli adolescenti nella trap o sui social – che Cobain e i Nirvana contribuirono a tirare fuori? È davvero svanito?
Di Nicola Sellitti

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