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Voto Senato abuso d'ufficio

DisUnione

Il duplice paradosso riguardo al voto del Senato che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio. La disunione fa la forza, il voluttuoso motto degli anti-meloniani
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Il duplice paradosso riguardo al voto del Senato che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio. La disunione fa la forza, il voluttuoso motto degli anti-meloniani
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Il duplice paradosso riguardo al voto del Senato che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio. La disunione fa la forza, il voluttuoso motto degli anti-meloniani
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Il duplice paradosso riguardo al voto del Senato che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio. La disunione fa la forza, il voluttuoso motto degli anti-meloniani
Esiste un duplice paradosso riguardo il voto del Senato che ha cancellato (ma serve il via libera definitivo della Camera) il reato di abuso d’ufficio. Il primo è che una parte delle opposizioni si è unita alla maggioranza per dire di sì; il secondo che seppur tanti amministratori di sinistra (e non solo) ne reclamavano l’abolizione, al dunque il Pd si è unito ai Cinque Stelle nel voto contrario. Sul merito del provvedimento, su queste colonne Davide Giacalone, Fulvio Giuliani e altri si sono già espressi. Sotto il profilo politico è lecito osservare che se dai territori parte una spinta da presidenti di Regione, sindaci, assessori per rivedere la norma e invece al centro i dirigenti di partito la ignorano, il pericolo è che si crei un corto circuito non tanto e non solo fra amministrati e amministratori quanto nell’elettorato di riferimento che ha come sbocco obbligato l’addio alle urne. Non un grande affare, dunque.
I manuali di politica di una volta spiegavano che fare opposizione non significa inalberare una serie infinita di no ideologicamente e strutturalmente espressi, quanto sapersi incuneare nelle divaricazioni della maggioranza di turno anche votando favorevolmente a misure che hanno appeal elettorale e di contenuto. Niente di tutto questo avviene: meglio lo scontro e l’invettiva rispetto al confronto e al dialogo. Naturalmente il discorso vale per il centrodestra come per lo schieramento opposto: stessa sindrome da accerchiamento e da nemico da annichilire. Con una differenza sostanziale: che mentre la maggioranza, seppur percorsa da divergenze strutturali, governa grazie alla vittoria nelle urne e non ha alcun interesse a modificare la situazione se non in vista del prossimo appuntamento con i seggi, l’opposizione deve farsi carico di predisporre uno schieramento e una proposta politica capaci di essere visti dagli italiani come una possibile alternativa.
Anche qui, niente di simile è alle viste. I cinque-sei partiti che si snodano sul discrimine destra-sinistra – in attesa che magari altre sigle nascano in vista delle prossime elezioni politiche – appaiono come altrettanti pirandelliani personaggi in cerca d’autore, pronti a beccarsi nel pollaio dei tg e dei talk show più che a valorizzare gli eventuali (benché allo stato assai flebili) elementi unitari. Mentre il melonismo, seppur scontando molte più ombre che luci, prende sembianza e si struttura, sul fronte opposto si assiste a una cacofonia di linguaggi e di atteggiamenti all’insegna del mors tua vita mea, ottimo viatico per consentire al centrodestra guidato da Giorgia un’autostrada verso la riconferma.
Qualche esempio. Sulla giustizia, il voto in Senato conferma la disarticolazione. Sull’economia, la vicenda Ilva segnala divaricazioni non ricomponibili. Sulla politica estera, Ucraina e Israele mettono i centristi, il Pd e Conte su fronti opposti. Sulle riforme istituzionali che il Parlamento ha cominciato ieri a discutere, il premierato raccoglie un coro di no senza tuttavia che emerga una proposta alternativa credibile e praticabile. La disunione fa la forza, sembra essere il voluttuoso motto degli anti-meloniani. La forza degli sconfitti.
Di Carlo Fusi

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