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Israele ritiro Gaza

Ritiro da Gaza pensando all’Iran

La decisione dei vertici Tel Aviv per il ritiro da Gaza Sud resta quantomeno controversa

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Ritiro da Gaza pensando all’Iran

La decisione dei vertici Tel Aviv per il ritiro da Gaza Sud resta quantomeno controversa

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Ritiro da Gaza pensando all’Iran

La decisione dei vertici Tel Aviv per il ritiro da Gaza Sud resta quantomeno controversa

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La decisione dei vertici Tel Aviv per il ritiro da Gaza Sud resta quantomeno controversa

Il ritiro dell’esercito israeliano dall’intera area di Gaza Sud è stato commentato negli ultimi due giorni concordando grosso modo su un aspetto: la necessità da parte del leader Benjamin Netanyahu di fare un passo verso gli Stati Uniti e cedere almeno qualcosa rispetto alle pressioni crescenti arrivate dalla Casa Bianca. In particolare dopo le ultime, insopportabili settimane dal punto di vista umanitario. Perché possiamo accusarci di ipocrisia ma è un fatto che la morte dei sette cooperanti abbia ulteriormente smosso coscienze e diplomazia. Il ritiro, inoltre, mette i mediatori Stati Uniti e Qatar nelle migliori condizioni possibili per riprendere a lavorare in vista di una tregua, idealmente entro la fine del Ramadan.

Detto ciò e oltre le dichiarazioni di facciata, la decisione dei vertici Tel Aviv resta quantomeno controversa. Da un lato dimostra che nessuno, persino un primo ministro ossessionato dalla propria sopravvivenza politica come “Bibi”, può sopportare oltre un determinato limite l’accerchiamento diplomatico degli amici e che, di conseguenza, non rispondeva al vero l’incapacità dell’Occidente (Stati Uniti e Unione europea) di farsi ascoltare dal suo fondamentale alleato storico nella regione. D’altro canto, il ritiro non sembra rispondere a un disegno strategico di ampio respiro – definito da mesi nei dettagli – ma a un’esigenza tattica sul terreno: la necessità di dare respiro ai riservisti, mentre Israele rischia concretamente di finire impegnato su più fronti e le riserve di uomini e materiali non sono infinite. Al contempo, il preteso e strombazzato obiettivo di eliminare Hamas e cancellare dalla faccia della Terra l’organizzazione terroristica responsabile dell’infamia del 7 ottobre appare irraggiungibile nel breve tempo e forse anche nel medio e lungo periodo. Nel senso che una simile carica d’odio, moltiplicata da mesi di guerra nella Striscia e pagata in buona misura dalla popolazione civile, potrebbe non essere raccolta dagli attuali vertici dell’organizzazione terroristica – ove mai fossero realmente messi in condizione di non nuocere – ma troverebbe con ogni probabilità altri interpreti mossi dal desiderio di vendetta.

La stessa ammissione che per le settimane a venire, pur riservandosi ‘mano libera’ su Rafah, Israele passerà alle operazioni mirate e chirurgiche può essere letta come una sconfessione almeno parziale della strategia nella Striscia. Individuare, stanare, catturare o eliminare i capi, le teste pensanti e i collegamenti con i grandi sponsor internazionali – a cominciare dall’Iran – ci era sempre apparsa l’unica procedura sensata, per non gettare Israele nell’attuale incubo. Non perché azioni di questo tipo non comportino danni collaterali o non inneschino conseguenze ma perché restano gestibili in una scala diversa dall’inferno in cui è stata tramutata Gaza e che ora rischia di inghiottire un bel tratto di futuro del Paese e dell’intero Medio Oriente.

A proposito delle conseguenze di azioni mirate, il blitz di Damasco in cui è stato ucciso uno dei più alti ufficiali dei pasdaran ha portato l’Iran vicino al punto di rottura. Bisognerà capire quanto il regime degli ayatollah potrà limitarsi a parole di fuoco e azioni più o meno dimostrative o se rischierà una reazione più ampia. Questo è un ulteriore elemento che aiuta a spiegare il ritiro delle truppe dalla Striscia ma permette anche di sottolineare le differenze fra le offensive mirate – delle quali Israele ha una storica capacità di gestire le conseguenze (anche le più drammatiche) senza perdere calma e lucidità  – e quello a cui stiamo assistendo a Gaza. Lì per ogni tunnel distrutto ce ne sono altri cinque o dieci da individuare e per ogni terrorista vero o presunto eliminato ne sbucano dalle macerie o dal sottosuolo il triplo, per tacere di chi sarà spinto al terrorismo proprio da ciò che ha visto scatenarsi intorno a sé.

di Fulvio Giuliani

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