Civil War di Alex Garland, fantarealistica guerra politica
A Brooklyn c’è una manifestazione. I cittadini sono scesi in strada per la carenza di acqua. La polizia carica e improvvisamente una bomba esplode. Inizia così Civil War di Alex Garland
Civil War di Alex Garland, fantarealistica guerra politica
A Brooklyn c’è una manifestazione. I cittadini sono scesi in strada per la carenza di acqua. La polizia carica e improvvisamente una bomba esplode. Inizia così Civil War di Alex Garland
Civil War di Alex Garland, fantarealistica guerra politica
A Brooklyn c’è una manifestazione. I cittadini sono scesi in strada per la carenza di acqua. La polizia carica e improvvisamente una bomba esplode. Inizia così Civil War di Alex Garland
A Brooklyn c’è una manifestazione. I cittadini sono scesi in strada per la carenza di acqua. La polizia carica e improvvisamente una bomba esplode. Inizia così Civil War di Alex Garland
A Brooklyn c’è una manifestazione. I cittadini sono scesi in strada per la carenza di acqua. La polizia carica e improvvisamente una bomba esplode. Inizia così “Civil War”, il quinto film scritto e diretto dal regista britannico Alex Garland. Proiettato in anteprima mondiale a marzo 2024 al festival americano “South by Southwest” di Austin (Texas), arriva ora nelle sale italiane. Girato in pellicola da 35 mm, è un atipico action movie. Oltre all’azione ci sono la riflessione e la bellezza dei tempi sospesi. Che siano dei fiori su un prato verde, i fuochi rivali in cielo o le scintille di un rogo boschivo che assomigliano a una pioggia cosmica, la fotografia firmata da Rob Hardy – insieme al lavoro di regia di Garland – riesce a unire due linguaggi (autoriale e d’azione) che sembrano sempre troppo lontani.
Non lontana sembra invece l’epoca in cui è ambientato questo lungometraggio, più che fantascientifico, fantarealistico. Una storia distopica e drammatica che si inserisce nel filone del cinema politico statunitense. Anche se il casus belli non è esplicitato, negli Stati Uniti è scoppiata una guerra civile tra il governo autoritario di un presidente che si è fatto eleggere per il terzo mandato e varie fazioni territoriali. La celebre fotografa di guerra Lee Smith (impersonata da Kirsten Dunst), durante il suo lavoro e quegli scontri a Brooklyn ha salvato Jessie (Cailee Spaeny), un’aspirante e giovane fotografa del Missouri, grande fan proprio di Smith. Tornata in hotel, tra wi-fi lento ed elettricità intermittente, la stessa Lee decide insieme al suo collega reporter di “Reuters” Joel (Wagner Moura) di intraprendere un viaggio verso Washington, con un unico obiettivo: intervistare e fotografare il presidente degli Usa. Insieme a loro – per organizzare i dettagli – c’è anche Sammy (Stephen McKinley Henderson), veterano giornalista del “The New York Times” nonché mentore di Lee. Anche se lei non vorrebbe, vista la pericolosità del viaggio, Sammy si ostina e parte con loro. Il giorno dopo ai tre, pronti per il viaggio, si aggiunge la giovane Jessie che si presenta con fotocamera e bagagli. La sera prima ha convinto il poco sobrio reporter Joel a far parte della spedizione.
Più di 800 miglia li separano dalla Casa Bianca. Molte strade sono inagibili, tra macchine accatastate e morti lungo le carreggiate. I quattro coraggiosi giornalisti viaggiano sulla loro Ford Excursion targata New York, tra città dilaniate e paesaggi desolati, check point autogestiti e gruppi di ribelli pronti a uccidere senza pietà. Gli occhi attenti di Joel e Sammy, gli scatti in bianco e nero della Nikon di Jessie, le foto a colori della Sony di Lee sono lì, presenti a ogni costo, pronti a testimoniare le guerriglie, le uccisioni, le torture e le condizioni estreme in cui si sono ridotti i cittadini americani.
In questo clima di disillusione verso le proposte politiche e giornalistiche, alimentate da una divisione acuita dai social (che ormai, più che network per interagire, sono media da subire) il lavoro di Garland diventa provocatorio. Vuole mettere in discussione il concetto stesso di politica declinato come forma di ideologia e di fazione, per tornare forse con il pensiero a quella politica originaria che è invece l’arte del possibile. Un concreto realismo, quello dei problemi dei cittadini, non più un populismo che finge di essere dalla parte dei più ma che considera quei più soltanto un voto.
di Edoardo Iacolucci
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