L’ultimo volo del Flaco
‘El Flaco’ lo è stato invece per tutta la vita, con quel soprannome – affibbiatogli per via della sua figura longilinea – che lo caratterizzava più di qualsiasi documento d’identità
L’ultimo volo del Flaco
‘El Flaco’ lo è stato invece per tutta la vita, con quel soprannome – affibbiatogli per via della sua figura longilinea – che lo caratterizzava più di qualsiasi documento d’identità
L’ultimo volo del Flaco
‘El Flaco’ lo è stato invece per tutta la vita, con quel soprannome – affibbiatogli per via della sua figura longilinea – che lo caratterizzava più di qualsiasi documento d’identità
‘El Flaco’ lo è stato invece per tutta la vita, con quel soprannome – affibbiatogli per via della sua figura longilinea – che lo caratterizzava più di qualsiasi documento d’identità
Raccontare César Luis Menotti non è cosa semplice. Figlio di immigrati marchigiani, durante la sua esistenza è stato tante cose, per molta gente, in momenti diversi: calciatore più propenso alla geometria che alla fatica, allenatore vincente, campione del mondo, simbolo popolare, genio della tattica, filosofo del quotidiano, comunista. ‘El Flaco’ lo è stato invece per tutta la vita, con quel soprannome – affibbiatogli per via della sua figura longilinea – che lo caratterizzava più di qualsiasi documento d’identità. Anche perché sulla sua data di nascita c’erano dubbi. Aveva sempre sostenuto di essere nato il 22 ottobre 1938, ma i documenti ufficiali riportavano la data del 5 novembre. Colpa del padre, raccontava Menotti, che aveva dimenticato di registrarlo all’anagrafe.
Comparso nel mondo del calcio all’inizio degli anni Sessanta con la maglia del Rosario Central, aveva girovagato un po’ vincendo titoli con il Boca Juniors in Argentina e il Santos in Brasile (la squadra di Pelè). A 32 anni il ritiro, l’approdo in panchina e l’inizio della leggenda. Nel 1973 vince il titolo con l’Huracan, fatto già storico di per sé (dato che da quelle parti non si vinceva dal 1928) e poi ammantato di mito, visto che dopo Menotti nessuno ci riuscirà più. Lo chiamano allora ad allenare la Nazionale argentina, in vista dei Mondiali del 1978 che si giocheranno in casa. Amatissimo dal pubblico, diviene la spina nel fianco della dittatura che nel frattempo (nel 1976) ha preso il potere. Da un lato Menotti è un membro del Partito comunista argentino, quindi nemico del regime. Dall’altro è un personaggio che riscuote il consenso popolare, di conseguenza difficile da allontanare. In più è un maestro di calcio che porta in Sudamerica la lezione del ‘calcio totale’ olandese, la arricchisce con gli elementi di grinta e dedizione tipici degli argentini e ne fa un tutt’uno.
Durante la rassegna iridata il suo ruolo esula dal semplice ambito sportivo, facendone una sorta di garante dei sentimenti del popolo. Lo dirà anche ai suoi giocatori, prima della finale mundial vittoriosa contro l’Olanda: «Non giochiamo per le tribune ufficiali piene di militari, ma per il popolo. Non difendiamo la dittatura, ma la libertà». Sarà la sua firma su quel primo trionfo albiceleste. Anni dopo dirà che, a posteriori, non avrebbe dovuto accettare l’incarico di guidare la Selección in quel momento storico, ma aveva prevalso il sentimento di lealtà verso la sua gente.
Del resto Menotti era un uomo che sapeva riconoscere i propri errori. Come quando (sempre nel 1978) lasciò un giovanissimo Diego Maradona fuori dalla lista dei convocati per il Mondiale, salvo poi farne il perno dell’Argentina Under 20 che conquisterà il titolo iridato l’anno dopo. E chiederne immediatamente l’acquisto, una volta divenuto allenatore del Barcellona nel 1983. In Italia lo apprezzammo per poche partite, alla guida di una Sampdoria già lontana dai fasti dorati dell’era Boskov. Ma a noi amanti del calcio già bastava l’idea che ‘El Flaco’ fosse in Italia. Uomo colto, prima delle partite importanti si concentrava leggendo testi di filosofi o grandi letterati. Una sola eccezione, la notte prima della finale mondiale: «Mentre cercavo di concentrarmi sul testo, gli olandesi facevano colpi di tacco a ogni virgola…».
Ora che ci ha lasciato – domenica scorsa, a 85 anni – magari cercheremo un nuovo Menotti da qualche parte. Anche se ‘El Flaco’ resterà sempre uno. Unico e solo.
di Stefano Faina e Silvio Napolitano
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Tag: sport
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