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Forti

Piccoli con i Forti

Capita che il rientro di un nostro connazionale condannato all’ergastolo negli Stati Uniti, Chico Forti, si trasformi in un caso politico nazionale capace di dividere l’Italia

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Piccoli con i Forti

Capita che il rientro di un nostro connazionale condannato all’ergastolo negli Stati Uniti, Chico Forti, si trasformi in un caso politico nazionale capace di dividere l’Italia

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Piccoli con i Forti

Capita che il rientro di un nostro connazionale condannato all’ergastolo negli Stati Uniti, Chico Forti, si trasformi in un caso politico nazionale capace di dividere l’Italia

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Capita che il rientro di un nostro connazionale condannato all’ergastolo negli Stati Uniti, Chico Forti, si trasformi in un caso politico nazionale capace di dividere l’Italia

Capita che il rientro di un nostro connazionale condannato all’ergastolo negli Stati Uniti e per questo detenuto in un carcere di Miami per ventiquattro anni e sei mesi, si trasformi in un caso politico nazionale capace di dividere l’Italia. L’aspetto singolare è che la spaccatura non si è creata – come ci si sarebbe potuti aspettare – tra guelfi innocentisti e ghibellini colpevolisti, ma per un motivo che ha a che fare molto più con certe italiche attitudini.

È anche vero che per almeno quattro lustri la stragrande maggioranza degli italiani non ha avuto la minima idea dell’esistenza in vita di Enrico Forti detto ‘Chico’ né tantomeno del fatto che un tribunale statunitense lo avesse ritenuto colpevole con sentenza definitiva di omicidio più altri reati odiosi collegati. Ma assistere al teatrino dei fronti politici contrapposti – impegnati da una parte nell’esaltazione dell’arrivo dello stesso Forti in Italia per finire di scontare la sua pena, dall’altra nella disapprovazione sdegnata per i tappeti rossi e le riverenze riservate al galeotto di ritorno – fa cadere le braccia.

Nessuno (o giù di lì) che si chieda per esempio se Chico Forti sia davvero innocente – come da tempo va sostenendo un’efficace e intensa campagna mediatica appoggiata da celebrities di vario lignaggio – oppure se la condanna definitiva nei suoi confronti sia stata a suo tempo emanata al termine di un processo giusto e sulla base di elementi concreti di colpevolezza. Certo, avrebbe aiutato poter dare un’occhiata agli atti di quel processo, ma purtroppo Forti si è sempre rifiutato che venissero messi a disposizione di chi (per studio o anche per semplice interesse) volesse leggerli.

L’aspetto paradossale è diventato così un altro, invece di discutere e dividersi sul merito della faccenda, ci siamo ridotti – ed è qui che subentra un vezzo tutto italiano – a farne una questione da derby tra fazioni politiche: noi contro voi. Buffo però che, anche nell’ambito di questa situazione da stracittadina calcistica, finiscano per vacillare alcune certezze che dovrebbero fungere da capisaldi per militanti e simpatizzanti di partito. Prendi la destra profeta del law and order: accogliere con tutte le pompe quello che il tribunale della più solida e moderna democrazia occidentale ha dichiarato essere un volgare assassino cozza giusto un po’ con la dottrina ‘legge e ordine’. Oppure, sul fronte opposto, prendi quelli che fino a ieri – anzi anche oggi e di sicuro domani – continuano a considerare sicuramente colpevole un indagato prima ancora che il processo sia cominciato, a invocarne la metaforica forca delle dimissioni preventive, a giustificarne la gogna mediatica: dov’è finito tanto rigore etico-morale nel caso di chi rientra in patria con una condanna per omicidio sulle spalle?

Per non dire di quelli che cercano disperatamente di prendersi meriti ex post: conoscevamo la vicenda, ci eravamo attivati anche noi, il governo Meloni ha soltanto raccolto i frutti del nostro lavoro. Cosa non si fa pur di sentirsi dire «Bravi lo stesso». Oppure quelli che si dichiarano profondamente turbati dal presidente del Consiglio in aeroporto per Forti, ma dimenticano il tripudio con cui Oliviero Diliberto accolse (seppur dalla sua scrivania di ministro della Giustizia) Silvia Baraldini. Poi ci sono quelli che «Perché Forti sì e Salis no?», mescolando mele con limoni, scambiando anche qui indagati con condannati, dimenticando – o più probabilmente ignorando del tutto – i rudimenti della grammatica giuridica.

Il caso del ritorno di Chico Forti è un campionario di contraddizioni, salti carpiati e avvitati, teste sotto la sabbia e facce di bronzo. Tutto normale, quindi.

di Valentino Maimone

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