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Scontro Hezbollah-Israele: perché non è un’escalation

Attacchi contenuti che non mettono a rischio i negoziati al Cairo e, paradossalmente, rafforzano Netanyahu, al massimo di popolarità da mesi

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Scontro Hezbollah-Israele: perché non è un’escalation

Attacchi contenuti che non mettono a rischio i negoziati al Cairo e, paradossalmente, rafforzano Netanyahu, al massimo di popolarità da mesi

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Scontro Hezbollah-Israele: perché non è un’escalation

Attacchi contenuti che non mettono a rischio i negoziati al Cairo e, paradossalmente, rafforzano Netanyahu, al massimo di popolarità da mesi

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Attacchi contenuti che non mettono a rischio i negoziati al Cairo e, paradossalmente, rafforzano Netanyahu, al massimo di popolarità da mesi

La reazione di Israele con il suo attacco preventivo agli obiettivi di Hezbollah atteso da giorni, è alla fine arrivato. Così come il commento immediato: “Nessuna base militare (israeliana) è stata colpita e nessun obiettivo nel centro del Paese è stato danneggiato” ha dichiarato l’Idf, aggiungendo: “Continueremo a eliminare le minacce da nord, come abbiamo fatto anche nelle ultime settimane”. Ne è seguita anche la reazione delle forze di Tel Aviv, nel sud del Libano. Sventato anche un attacco libanese nell’area in cui si trova il quartier generale del Mossad che ospita anche una base dell’unità 8200, il corpo d’élite dell’intelligence.

Ma al di là dello scontro sul campo resta la riflessione sul senso di questo scontro sul campo, che appare soprattutto come un “atto dovuto”. I “danni” sono stati limitati, anche perché l’offensiva era largamente attesa, così come la risposta che, come ha scritto il New York Times citando un funzionario dell’intelligence occidentale, doveva colpire i lanciamissili in Libano, programmati per essere lanciati alle 5 del mattino (come infatti è accaduto). Non solo. Entrambe le azioni non hanno di fatto cambiato la situazione: non sono stati raggiunti obiettivi sensibili, il bilancio è stato contenuto e non poteva che essere così dal momento che si sono concentrati in una fascia di 5 km dal confine tra Israele e Libano, già interessata da scontri da diverse settimane e dunque in larga parte evacuata.

Certamente Hezbollah non poteva non reagire, così come l’Iran che, tramite il capo della Guardia iraniana, Hossein Salami, ha ribadito la promessa di “vendetta” contro Israele poco prima dell’attacco pianificato di Hezbollah. Lo aveva confermato il Times of Israel e la conferma che una risposta ad Tel Aviv non poteva mancare arriva oggi anche dal commento (entusiasta) dei ribelli Houthi dello Yemen, sostenuti dall’Iran. Nell’elogiare gli attacchi di Hezbollah del Libano contro Israele, in una nota hanno anche annunciato nuove azioni contro Tel Aviv: “Ci congratuliamo con Hezbollah e il suo segretario generale per il grande e coraggioso attacco condotto dalla resistenza questa mattina contro il nemico israeliano” hanno affermato in una dichiarazione, aggiungendo che una risposta agli attacchi del 20 luglio da parte di Israele al porto di Hodeida gestito dai ribelli “sta sicuramente arrivando”.

Il tutto, però, non influisce sui negoziati in corso al Cairo, che sono iniziati puntualmente e dai quali paradossalmente ci si attende un primo risultato concreto proprio adesso. Non a caso anche il capo della delegazione dei negoziatori di Hamas è in Egitto, anche se non prende parte agli incontri collettivi. Ciò a cui si mira non è sicuramente una pace definitiva, ma quantomeno una tregua di 72 ore. Poi si discuterà della gestione del corridoio Filadelfia, che Israele non vuole sotto il controllo dei palestinesi, ma che l’Egitto considera cruciale anche per la propria stabilità interna.

L’altro paradosso è che tutta la situazione che si è venuta a creare non ha fatto altro che rafforzare la posizione di Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano ha aumentato la propria popolarità nelle rilevazioni del gradimento, raggiungendo un livello mai registrato da 8/9 mesi a questi parte. Chi lo dava per “spacciato” politicamente si deve dunque ricredere. Nonostante le tensioni interne al governo, il leader 74enne continua a godere del sostegno di un popolo che, con l’attacco del 7 ottobre, ha subito una ferita dalla quale non si è ancora ripreso e soprattutto non vuole dimenticare. Nonostante le manifestazioni del sabato da parte di coloro che contestano il premier, in molti lo sostengono nell’esigenza di riportare a casa gli ostaggi e questa rappresenta per Netanyahu una garanzia di “lunga vita politica”.

Lui continua a parlare da “comandante in capo”, come ha fatto nelle scorse ore, affermando: “Siamo determinati a fare di tutto per difendere il nostro Paese, per riportare gli abitanti del nord in sicurezza nelle loro case e per continuare a sostenere una semplice regola: se qualcuno ci fa del male, noi rispondiamo facendogli del male”. Parole pronunciate in occasione della riunione del Gabinetto di sicurezza. Parole con le quali concorda, pur con qualche distinguo, la maggior parte del popolo israeliano. E poco importante se proprio Netanyahu viva una fase di isolamento internazionale, proprio a causa della crisi di Gaza.

Gli Usa, pur con una certa distanza (anche a causa delle elezioni presidenziali incombenti e del rischio di contestazioni da parte del popolo pro-Palestine in patria) non fanno venire meno il proprio sostegno. Nelle scorse ore il Pentagono ha assicurato che gli Stati Uniti sono “pronti a sostenere” la difesa di “Continuiamo a monitorare da vicino la situazione e siamo stati molto chiari nel dire che gli Stati Uniti sono pronti a sostenere la difesa di Israele”, ha infatti in una nota un portavoce del segretario della Difesa Usa, anche se la Cbs riporta che le forze americane non sono state coinvolte nell’attacco preventivo di Israele contro Hezbollah in Libano. Ufficialmente si è trattato di una reazione “a sorpresa”, almeno per gli Stati Uniti, ma il ruolo di Washington non va comunque dimenticato. Non a caso, nel mettere in guardia dal rischio di un’ulteriore escalation regionale, il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi si è rivolto anche al generale Charles “CQ” Brown, il generale più alto in grado degli Stati Uniti, incontrato al Cairo.

di Eleonora Lorusso

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